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La
Fiat "oltre Torino" Torino "oltre la Fiat"
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Marco
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e trasformazione del lavoro eterodiretto
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Il
territorio come struttura spazio temporale dei rapporti sociali: fra
produzione e valorizzazione immobiliare
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E INTERVENTI
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Ricomposizione
e internazionalizzazione: il passaggio difficile del sindacato
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dal "governo amico"
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Andrea
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Il
ponte
della
Lombardia
periodico
di commento
critica
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Comedit
2000
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Paolo
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resp.
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Reg.
Trib. MI n.
304 maggio 1992
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Da Venezia a Torino
Sono qui per darvi il
benvenuto a nome del mio giornale, il manifesto e perche' sono
stato una delle cause (insieme a Mario Agostinelli, Aldo Bonomi, Paolo
Cacciari, Marco Revelli e Francesco Indovina) dell'incontro - analogo a
questo - che si e' tenuto a Venezia nel novembre scorso, dove discutemmo
dei conflitti nel post-fordismo estremista del nord-est. Con questo
incontro di Torino le cause, cioe' i promotori di questo genere di lavoro
diventano molto numerosi: e infatti potremmo chiedere a Giorgio Cremaschi
- che appunto a Venezia propose di vederci qui sul lato opposto del nord
d'Italia - di aprire il prossimo appuntamento, che terremo forse a Milano,
o forse a Napoli o - come qualcuno ha proposto - a Gallipoli. Percio', mi
limitero' a dire in poche parole che senso, che valore noi del manifesto
attribuiamo a questi incontri, e anche al loro - chiamiamolo cosi' -
stile. Probabilmente tutti voi siete lettori del nostro giornale, percio'
avrete potuto notare che nelle ultime settimane gli autori del libro che
ha aperto - sia nel senso di "cominciato" che in quello di
"allargato" - il dibattito in italiano sulla globalizzazione e
il neoliberismo, parlo di Rossana Rossanda, Pietro Ingrao e Marco Revelli,
hanno scritto sul manifesto tre ampi articoli, il cui numero di righe era
direttamente proporzionale alla difficolta' dei problemi che sollevavano.
Ingrao ha scritto all'indomani del congresso del Pds e a proposito non
tanto dello scontro tra il segretario della Cgil e quello del Pds, ma
sulla cultura di quest'ultimo e - di conseguenza - dell'urgenza che una
sinistra nuova (o altra, o prossima, o futura, si scelga l'aggettivo che
si vuole) traduca gli alfabeti della modernita' e ricrei con cio' un senso
comune in grado di unire e di mettere in movimento, contro l'esclusione e
l'oppressione. E quanto Ingrao avesse bene intuito l'urgenza lo capiamo
ora, mentre ci domandiamo - un po' smarriti - se avremmo potuto fare
qualcosa per evitare che la piu' grande ondata razzista che si ricordi ci
sommergesse, e che i nostri - i nostri - governanti si comportassero - ha
detto in un'altra occasione Ingrao - "come barbari", e che di
conseguenza alcune decine di esseri umani in cerca di soccorso fossero
annegati nel Canale di Otranto. Faro', se permettete, solo una piccola
digressione, su questo avvenimento. Del resto, fa parte dello stile di
questi incontri: ciascuno ci mette se stesso. Per questo gli appelli per
Venezia e per questo incontro di Torino erano firmati da persone. Quel che
ci metto io, oggi, e che vorrei comunicarvi, e' la sensazione di aver
subito l'umiliazione piu' grande dacche' faccio politica. Non mi ero
sentito cosi' - come mi sono sentito la sera di Venerdi' Santo - nemmeno
il giorno in cui la radio della macchina su cui viaggiavamo diede con la
voce di Piero Scaramucci, del Gazzettino Padano, la notizia che a Brescia
una bomba era esplosa in Piazza della Loggia, durante una manifestazione
sindacale, nel maggio del '74. In fin dei conti, a quell'epoca ci
combattevamo tra noi italiani, e i volti dei nostri avversari li vedevo
tutti i giorni - o ero convinto di vederli - in quelli delle bande
fasciste per le strade, in quelli dei celerini dietro lo scudo di plastica
e, la sera, nel telegiornale. Ed era una lotta tra forti, quella che si
combatteva in quegli anni, sebbene una delle due parti usasse metodi
sleali e feroci. Questa volta non era cosi'. Sono state persone della mia
cultura e della mia lingua a rendersi colpevoli di un crimine contro
altri, stranieri; ed e' stato un governo che ho sentito in qualche misura
simile a me, quando si e' insediato. Soprattutto, quegli 83 esseri umani
erano infinitamente piu' deboli. E il solo dubbio di far parte, mio
malgrado, dell'infinitamente piu' forte, per di piu' sleale e feroce, e di
esserne in qualche modo complice non e' per me tollerabile. Percio' ho
anch'io una tremenda fretta di ritrovare un senso comune: uno che, per
esempio, semplicemente senta gli albanesi in fuga come nostri eguali e
nostri possibili alleati. Ecco, il fatto e' che sono stanco di lutti.
Negli ultimi mesi, i due avvenimenti che principalmente mi hanno impegnato
sono il fatto che tre miei amici sono stati mandati innocenti
all'ergastolo. E poi, l'ho detto, c'e' stata la convulsione razzista che
ha reso grottesca la faccia dei giornali e della politica, dell'opinione e
del senso comune opposto a quello che Ingrao vorrebbe. Ma - giusto un anno
fa - venni a Torino, per un certo periodo, a indagare su un terzo lutto:
era la morte per annegamento di quel ragazzo marocchino cui un poliziotto
aveva messo le manette, sulla banchina dei Murazzi, poco lontano di qui:
speciale e personale anticipazione del Canale di Otranto. Quel poco che so
di Torino l'ho imparato in quelle settimane. E parlare con decine di
marocchini, senegalesi e loro amici italiani mi ha mostrato di questa
citta' una angolatura molto diversa da quella - storica - della citta'
degli operai, e certamente opposta a quella - "europea" -
dell'attuale sindaco. Dicevo dei tre articoli. Di quello recente di Marco
Revelli mi ha colpito l'uso della parola "vuoto". Marco scriveva
dei vuoti che nella trama fordista urbana apre la modernita', cioe' il
ritirarsi della grande fabbrica. E leggendo mi sono chiesto se la chiave
di lettura non stia, banalmente, nel guardare a quei vuoti come al loro
opposto, ovvero dei "pieni", cioe' come a qualcosa che cresce
prima di tutto distruggendo, e in seguito ripopolando e rimodellando
l'esistente, la citta', in forme ai nostri occhi aliene. I Murazzi, per
esempio, sono stati un campo di battaglia, in cui si scontravano da una
parte la modernita' della citta'-vetrina, arma nella competizione tra
metropoli europee per conquistare fette del mercato della comunicazione
finanziaria e sociale, con tutto il suo corredo di speculazione
immobiliare e di ridislocazione fisica degli esclusi; e, dall'altra parte,
la modernita' dei sottomercati illegali o para-legali della forza-lavoro
senza diritti e delle droghe. E' chiaro che i Murazzi non avranno mai piu'
gli scopi commerciali, di trasporto fluviale, che i suoi costruttori
attribuivano loro. Ma in questo vuoto e' cresciuto un "pieno" di
relazioni sociali, un groviglio in cui cominciamo solo ora a dipanare i
diversi interessi. Non e' affatto impossibile, per continuare
nell'esempio, che il flusso finanziario che nasce, ruscello, nel momento
in cui un marocchino vende una stecca di hashish a un piccolo borghese
torinese, vada a finire nelle stesse banche che finanziano
ristrutturazioni immobiliari e ridisegni del piano regolatore. Non e'
forse questo il meccanismo che spiega l'"emergenza" di San
Salvario? Incidentalmente, la guerra dei Murazzi ha lasciato sul terreno
il corpo di un ventiquattrenne di Casablanca, di nome Khalid Moufaguid. Io
sono convinto che l'immigrazione, cioe' la relazione tra "noi" e
"loro", sia a un tempo una grande metafora e il cuore della
modernita' neoliberista. Noi ora indaghiamo sulla segmentazione dei
lavori, e sulla flessibilita' che anche il segretario del Pds invoca.
Ebbene, i piu' flessibili di tutti sono loro, gli stranieri che nelle
piazze della cintura torinese mettono in vendita il loro lavoro
giornaliero. Noi ci inquietiamo per la rottura progressivamente piu' grave
del patto di inclusione che correntemente chiamiamo Welfare State, senza
il quale i diritti politici e d'espressione diventano bucce senza polpa,
puri fregi del presidenzialismo che il segretario del Pds promuove.
Ebbene, questo patto non e' mai esistito per un milione e oltre di
lavoratori e di lavoratrici, e di esclusi, che hanno nomi balcanici o
islamici. Noi ci chiediamo - ed e' quel che io ho ricavato principalmente
dall'articolo di Rossana Rossanda, scritto in risposta a Revelli e a
proposito dell'incontro di oggi - che senso abbia, qui e adesso, la
nozione di "blocco sociale", ovvero come sia possibile mettere
in relazione i nuclei resistenti di apparato fordista - della cui
permanenza Cremaschi ci ha tutti convinto - con le nuove figure sociali
altrettanto - sebbene diversamente - sfruttate. Qualche tempo fa ci
rendemmo conto - stavo chiacchierando con il mio direttore, Valentino
Parlato - che un importante anniversario, il sessantesimo della morte di
Antonio Gramsci, cade il 27 aprile, due giorni dopo il 25 e il giorno
prima del 28, che e' il compleanno del giornale, una data cui siamo
affezionati. Allora, scherzando, dissi a Valentino: perche' non
organizziamo un convegno, su Gramsci, intitolandolo non "americanismo
e fordismo", ma "europeismo e post-fordismo"? Valentino mi
mando' al diavolo, ma a ben pensarci non era una cattiva idea. Quando per
esempio si adoperano le parole "progetto" o
"politica", ha scritto Rossana, o per lo meno questo ho capito,
queste non si devono tradurre con "incentivi all'industria" e
con "stato nazionale". Ma un problema - diciamo cosi' - che
consiste nell'avere una direzione di marcia da indicare ai soggetti piu'
diversi, e che tendenzialmente li unifichi, questo problema e'
urgentissimo. E, aggiunge Rossana, ha per lo meno le dimensioni
dell'Europa, il nostro nuovo "spazio nazionale", come dimostrano
la vicenda Renault, le lotte di resistenza in difesa degli stati sociali -
cioe' di una standard di civilizzazione solo europeo - o, di nuovo, le
legislazioni sull'immigrazione. E viceversa quando Revelli scrive le
parole "territorio" e "socialita'", queste non vanno
intese come tentazione di abbandonare, o guardare con indifferenza a
quella dimensione del problema, o ancora l'idea che in quei vuoti occorra
infilarsi come in "zone liberate", ma come la risposta alla
domanda su dove e come si possano trovare i singoli mattoni di un nuovo
edificio - europeo, globale - sul cui portone si potra' scrivere
"blocco sociale". Almeno, io cosi' capisco quando leggo Revelli.
Penso che abbiamo fatto bene, a organizzare questo incontro. Fin da subito
ci siamo resi conto - era facile - che il nord-ovest mostra una
contraddizione piu' violenta, rispetto al nord-est, non solo tra aree di
produzione e modi di lavoro differenti, e che in qualche modo convivono;
ma tra percezioni e coscienze differenti, tra lavoratori e comunita' delle
diverse aree e zone produttive. Ma proprio per questo si puo' sperare che
- sebbene in questa forma peculiare - Torino possa dare una risposta al
problema di cui parlavo, e che e' quello del nuovo secolo: come il ciclo
capitalista, modificando le vecchie forme della produzione e
intrecciandole alle nuove, possa alla fine creare una miscela di
soggettivita' desiderose del cambiamento. E', questa, una risposta che
Torino, e le sue fabbriche, hanno gia' fornito almeno due volte, in questo
secolo. Noi del manifesto, insieme a molti altri compagni, tra i quali
particolarmente quelli della Cgil e della Fiom, ci siamo adoperati perche'
ci si disponesse a cercarla, quella risposta. Tocca a questo dibattito,
farlo.
Il
territorio nella tradizione sindacale torinese
Il mio e' un contributo
parziale, come punto di vista e come argomenti. Nella tradizione del
movimento sindacale, fabbrica e territorio sono sempre state visti come
due entita' separate. L'una come conseguente dell'altra, ma separateƒ
Venti anni fa, la Cgil si era rifiutata di pubblicare un libro dal titolo
"La salute: dalla fabbrica al resto del territorio" sino a
quando l'autore non accetto' la proposta della Cgil: "La salute:dalla
fabbrica al territorio". E' lo stesso autore che mi suggerisce ancora
oggi un gioco: sostituire la parola innovare con la parola indovare, prima
di sapere dove si va e' utile sapere dove si sta. Lo spaesamento e' ormai
un grande fenomeno di massa. Dal punto di vista ambientale lo spaesamento
e' perdita dell'orientamento in uno spazio che non si conosce. Dal punto
di vista psicologico, quando la mappa geografica diventa mappa cognitiva,
non si resta mai spaesati a lungo, scatta il fenomeno della dissonanza
cognitiva, per evitare di cadere nella malattia ti fai una ragione anche
delle cose che non capisci. Diventi un uomo giustificato. Conviene tentare
di capire. Non sono affatto convinto che le differenze, nella nostra
discussione, stiano solo sui fini e sui mezzi. Abbiamo prima di tutto modi
diversi di guardare il mondo, che ci conviene rendere espliciti, per
quanto ne siamo capaci.
Riflessioni di un
sindacalista empirico sul cambiamento produttivo e sociale
Svolgiamo questo convegno qualche giorno dopo la conclusione del processo
a Romiti per falso in bilancio. Una persona che, se si osserva il suo
curriculum personale ha fatto nella vita tante cose ma e' difficile
affermare che se ne intenda, che sa come viene fatta un'automobile o un
camion. Una persona che gestisce una holding composta da oltre 1.100
societa'; che lavora sicuramente molto e quindi riesce a dedicare,
mediamente in un anno, due ore per societa', 10 minuti al mese, meno di 4
minuti alla settimana. E' anche una persona, se le indiscrezioni sono
veritiere, che ha dedicato piu' di un'ora alla decisione se risarcire o
meno, prima della conclusione del processo, la famiglia di un lavoratore
della ex Grandi Motori colpito da tumore per la esposizione all'amianto.
Mi diventa cosi' piu' chiaro cosa possa essere il "capitale
astratto", continuando ad avere una certa difficolta' a capire cosa
sia invece il "lavoro astratto". Il lavoro e' il prodotto delle
donne con l'ausilio degli uomini. Poi, non prima, si esprimono le forme
sociali del lavoro. Quella costruzione politica che ha opposto il lavoro
astratto al capitale ha fatto nascere nel mondo la madre di tutte le
burocrazie. Mentre oggi il terreno del conflitto sta proprio nella
resistenza di una parte importante degli esseri umani al crescente dominio
del capitale astratto. Nella tradizione della sinistra legata al movimento
operaio, il "modo di produzione" e' sempre stato la categoria
per capire ed interpretare. Il "processo lavorativo" e' sempre
stato considerato indifferente. Le "condizioni di produzione"
ignorate. La riproduzione scontata. Il territorio, o meglio la natura nel
territorio, e' stata produzione durante la nascita della manifattura:
l'uso della energia termica locale ( il termine "padrone del
vapore" aveva un preciso significato, niente affatto simbolico) e
l'uso della energia animale ( uomini, donne e fanciulli) non avveniva con
particolari distinzioni. Solo successivamente con Taylor, prima di Ford,
il territorio e' diventato pienamente "condizione di
produzione", mentre l'energia fisica e' data dall'energia elettrica e
l'uso dell'energia animale si e' concentrato sull'uomo medio: maschio ed
in eta' tale da rendere al massimo per un certo numero di anni. Il
territorio doveva sostenere la crescita dell'industria con la produzione e
la manutenzione della forza lavoro, con i trasporti e con le
comunicazioni, con un assetto urbano che seguisse l'espansione della
fabbrica. Con Ford il territorio era luogo di consumo e di controllo
sociale della forza lavoro. Con Keynes il territorio assumeva un ruolo
particolare usato con la domanda pubblica e statale a sostenere la
produzione nelle fasi di crisi. Perche' il plusvalore potesse continuare a
diventare valore, intervenendo sulla espressione piu' evidente della
crisi: quella da mancato realizzo. Concretamente - a Torino - erano le
case Fiat, la Malf, gli asili nido Fiat, il dopolavoro...e le schedature (
politiche, ma anche sulla moralita' dei lavoratori...). Piu' in generale,
il sostegno della domanda avveniva con la costruzione delle autostrade e
la progettazione della citta', dei luoghi di consumo in funzione dell'uso
dell'auto. Non siamo ancora all'esaurimento del paradigma del lavoro
produttivo fordista eppure credo si possa fare la previsione che questo
avverra', perche' sono venuti a mancare, come si dice, gli ambienti di
sviluppo che hanno permesso una certa evoluzione della tecnologia,
dell'uso degli esseri umani e delle forme sociali di riconoscimento dei
rapporti di scambio.
Fabbrica e territorio
nella esperienza del movimento operaio
La CGIL di Torino e' stata per lungo tempo un punto di riferimento per la
sinistra, sino a diventare un luogo comune. L'intervento sulla
organizzazione del lavoro ed i delegati unitari di gruppo omogeneo hanno
rappresentato una parte importante di questa esperienza. Quel documento
antico, del 1955, sulle condizioni di lavoro nella piu' grande fabbrica
italiana, la Fiat Mirafiori, e' un buon contributo per capire come i
delegati non siano stati una invenzione, ma soprattutto per misurare le
differenze con la situazione attuale. Per fare un esempio, come si e'
passati dal servizio prestiti aziendale alla distribuzione quotidiana di
depliant di finanziarie ai cancelli dello stabilimento. A Torino, la linea
di azione nella prima meta' degli anni '70 fondata sullo slogan ‚dalla
fabbrica alla societa' é ha, non a caso, trovato una particolare
applicazione attraverso un fase molto breve della esperienza
dell'articolazione delle lotte per le riforme sociali; la scuola, la
sanita', i trasporti e come salario indiretto sino alle vertenze per
destinare 1'1% del salario ai servizi sociali. I Consigli di Zona dei
delegati dovevano diventare l'espressione del controllo operaio sul
salario indiretto, in sostanza di una parte importante dello stato
sociale. Era altrettanto evidente come l'esperienza di zona era concepita
e praticata come pura proiezione della azione rivendicativa di fabbrica.
Non e' una esperienza ripetibile, eppure la nostra cultura di militanti
sindacali torinesi non pare sia cambiata piu' di tanto. Tant'e' vero che
non esiste alcun altro progetto in campo. Ora siamo a 22 sabati di lavoro
aggiuntivo, alle 2-3 settimane di ferie, alla estensione del turno di
notte. Venti anni fa, di questi tempi, eravamo al blocco degli
straordinari alla 127, ai picchettaggi ogni sabato assieme ai disoccupati.
Alla unificazione delle liste del collocamento tra uomini e donne, alla
chiamata pubblica al collocamento. Cosa avevano, come dice molte volte
Gianni Marchetto, nella "zucca" quegli uomini nel 1977, e cosa
hanno quelli di oggi. E cosa hanno le donne ? E ci sono, e quali sono le
forme di riconoscimento collettivo ?
La rottura del gioco
Insomma e' intervenuta solo una soluzione di continuita' soggettiva, nella
percezione del gioco, oppure e' anche cambiato il gioco? Il ventesimo
secolo era cominciato con l'ottimismo creato da una moneta forte e dal
gold standard; termina con il cinismo creato da flussi di incontrollabile
finanza internazionale e da montagne di irraggiungibili debiti. Per me la
rottura sta qui. La socialita' dell'impresa fordista si va perdendo. La
sovranita' dello stato nazionale si offusca. Lo stato sociale tende a
diventare asociale. I valori del lavoro e del prodotto tendono ad essere
sostituiti dal valore del possesso. Andranno meglio discusse le ragioni di
questo rovesciamento, di come il limite all'uso della merce fittizia terra
abbia spostato la ristrutturazione sulla merce fittizia lavoro. Del
perche' alla globalizzazione dell'economia e della produzione si
accompagna, con questi meccanismi della politica e delle economia, un
percorso che portera', nei prossimi 25 anni, gli abitanti della terra
senza acqua potabile da un miliardo e 400 milioni a 3 miliardi e da 1
miliardo e settecento milioni senza casa a 3 miliardi e 200 milioni, e non
tutti nel sud del mondo. Del perche' la produttivita' del lavoro possa
raddoppiare e, contemporaneamente, possa invece dimezzarsi la redditivita'
dell'impresa. Perche' la difficolta' delle imprese si presenti sempre come
crisi da costi e non si presenti piu' come crisi da realizzo, anche
quando, per esempio, lo stato decide i finanziamenti per la rottamazione.
Come e' avvenuto alla Renault, e vedremo tra un po' quale sara' la
situazione alla Fiat. Nella competizione globale, la crisi da costi ci
riporta un po' al punto di partenza: al territorio come fattore di
produzione. Non piu' solo per le risorse che mette a disposizione, fisiche
ed animali, ma per i saperi accumulati, i sistemi cooperativi stabiliti, i
ponti con il mondo lanciati. Soprattutto perche' il territorio e'
esistenza, e l'esistenza costa. Cade la finzione, tayloriana, del gorilla
ammaestrato, il gioco si fa esplicito: bisogna ammaestrare gli uomini. Non
solo per il loro sapere ed il loro saper fare, anche per la loro
educazione, formazione, salute, vecchiaia, la casa. Tutto entra nella
competizione. Non solo il salario monetario. Emergono con maggiore
evidenza le contraddizioni. Le lotte sono gia' in corso: la valorizzazione
di Torino con l'alta velocita' trova la resistenza della popolazione e di
tutti gli amministratori della Val di Susa che subirebbero un effetto
opposto. Torino puo' fare l'inceneritore nel luogo meno abitato del suo
territorio ma gli abitanti di Grugliasco e di Beinasco che confinano non
hanno la stessa opinione. L'affacciarsi di queste questioni richiede un
altro modello di esistenza prima che di sviluppo. I comportamenti di
resistenza che hanno caratterizzato le lotte sociali di questo periodo
hanno sempre avuto sullo sfondo, in qualche caso direttamente, questo
problema. Ma il processo di frammentazione sociale e' andato avanti, ogni
differenza nelle condizioni di partenza sta diventando distanza sociale
ancora piu' grande. Per ora, questi fenomeni li abbiamo letti con gli
occhiali che l'esperienza ci ha dato: abbiamo sommato il nuovo al vecchio.
Anche nel linguaggio che ci hanno imposto: il terzo settore oltre il
mercato e lo Stato; il socialmente utile oltre il produttivo, l'atipico al
tipico.
C'e' ancora uno spazio
per una pratica sociale del controllo (non piu' solo operaio...?
Della vecchia scuola della sinistra sociale torinese, io sono solo un
"replicante". Continuo a pensare, con il programma dei
commissari di reparto del 1919, che spetta ai sindacalisti contrattare
secondo il mercato del lavoro, mentre il compito degli eletti dai
lavoratori e' il controllo della produzione e del processo di produzione.
E se Taylor affermava che le funzioni di programmazione non possono stare
in officina, ho dei dubbi che oggi esse siano rimaste negli uffici. Dove
stanno oggi quelli che pensano e dove stanno quelli che lavorano ? Senza
affrontare queste questioni, i diversi diventano in fretta concorrenti. I
primi scioperi in Italia li hanno fatti i tessitori biellesi che si
battevano contro l'introduzione nelle manifatture degli apprendisti e dei
lavoratori forestieri. Le diverse forme e norme che regolano il rapporto
di lavoro sono cosi' compenetrate che in ogni azienda i contratti sono
sempre piu' di uno, anzi, molti piu' di uno. Senza contare quelli che non
stanno dentro le mura di cinta. Ancora una volta non possiamo non studiare
la organizzazione del lavoro che comporta questa frammentazione, i sistemi
cooperativi che si stabiliscono, i ruoli e le funzioni nei processi
lavorativi. Ai delegati ed ai tabelloni di linea ci siamo arrivati
studiando. Oggi quale e' la linea ? E chi deve rappresentare chi ? E,
soprattutto, abbiamo concretamente dimostrato che il lavoro dequalificato
poteva essere portatore cosciente di istanze di cambiamento. Il tabellone
di linea era l'espressione della battaglia per una democrazia cognitiva
nei luoghi di lavoro. Emerge qui una questione interessante relativa alla
formazione ad alla espressione del saper fare. La ristrutturazione sta
comportando, in generale uno svilimento delle esperienze e delle
competenze professionali assai vasto, nel taylorismo classico toccava
essenzialmente gli operai, oggi la Fiat sta consumando senza pensare al
futuro anche le competenze professionali medio alte ed alte, nel lavoro di
progettazione come in quello piu' direttamente produttivo e delle imprese
minori. La possibilita' di difendere la propria professionalita' impone di
estenderla dall'a'mbito del sapere tecnico, dalla competenza ristretta, ad
un sapere sociale, di ruolo, ad una competenza professionale allargata.
Sono ormai troppi i lavoratori che non possono piu' restare senza una
rappresentanza che parta dalla loro condizione. Il luogo di questa
rappresentanza ben difficilmente e' la fabbrica o la singola impresa. E la
forma della aggregazione collettiva ben difficilmente e' esclusivamente
quella rivendicativa, quella della organizzazione da combattimento, o di
quel che rimane di questa, di carattere militare da cui le organizzazioni
del movimento operaio hanno copiato troppo e male. Sempre se, ovviamente,
l'obiettivo e' controllare il proprio lavoro ed il suo risultato e
stabilire per questa via, in rapporto con altri, la possibilita' di
cambiare la propria esistenza per scelta, non per costrizione. Va
riaperto, quindi, il discorso sulle forme associative.
I lavori sociali
Nel secolo della crescita industriale gran parte delle attivita' tese a
creare e/o migliorare ed accrescere le possibilita' di sviluppo della
produzione, le ha controllate ed in molti casi le ha svolte lo Stato. Ora
entrano anch'esse direttamente nel mondo delle merci, fondano il loro
valore in quanto sono vendute. Perdono cosi' la loro funzione di
regolatore sociale, forse proprio la definizione di terzo settore e'
l'espressione della ambiguita' di questa esperienza, e' lavoro
sottopagato, il piu' delle volte in concorrenza con lavoratori del
pubblico impiego e contemporaneamente e' attivita' il cui risultato e' di
elevatissimo valore d'uso. Contemporaneamente puo' essere un lavoro di
estrema subordinazione - clientelare, piu' che gerarchica oppure un lavoro
capace di esprimere capacita' professionali e disponibilita' nelle
relazioni. Un approccio difensivo ci nega l'orizzonte positivo. Se poi il
movimento operaio volesse portare dentro questa esperienza non solo la
categoria del dono, ma anche la mutualita', il dono fondato sulla
reciprocita' tra simili e la volonta' e la capacita' di fare delle cose
contando sulle proprie forze, si potrebbe guardare ad una societa'
migliore senza delegare tutto a ristrette elite's di intelligenti e
volenterosi che dopo un po' pretendono gratitudine e nuove sudditanze. E
se non e' il terzo settore quello che copre gli spazi lasciati dalla
ritirata dello stato sociale, la soluzione va ricercata nella famiglia. In
questo caso il lavoro e' gratuito, ancora piu' conveniente. Va
incentivato.
Per una critica alle
attuali divisioni del lavoro, per un diverso uso del tempo
Se la lotta di fabbrica dell'uomo medio tayloriano si proponeva, nelle sue
esperienze migliori, la critica e la rimessa in discussione della
divisione del lavoro tra chi pensa e chi lavora e su questo fondava la
affermazione di un nuovo modo di produrre ed un nuovo modo di modello di
sviluppo, ora le persone concrete, gli uomini e le donne, devono lottare
per cambiare il modello di consumo, la gerarchia di valore dei bisogni, e
ricostruire cosi' una consapevolezza sul senso dei propri lavori. La
critica a questo modo di produrre, mi pare comporti la necessita' di
rompere l'attuale divisione tra lavori di produzione e lavori di
riproduzione ritenendo che solo cosi' sia possibile rispondere anche alla
tradizionale divisione tayloriana del lavoro che invece di tramontare, si
e' ormai trasferita alla societa', sino alla politica. Nella nostra di
vita di produttori, il tempo che la scandiva era contrassegnato dal
momento in cui dovevano essere acquisite le capacita' ad operare per
soddisfare dei bisogni, il momento in cui dovevano essere messe in pratica
ed il tempo in cui andavi a riposo. Le differenze di genere erano, sempre
teoricamente, una variante non particolarmente importante in tale modello.
Ora, ritengo, siamo ad un bivio: o la divisione del tempo e la divisione
del lavoro vengono rimesse in discussione o troveranno concrete
applicazioni nella frantumazione crescente e nella gerarchizzazione
crescente dei lavori. Un processo rovesciato alle pari opportunita', ogni
differenza segna un destino. Il territorio diventa allora, o il luogo
delle scorrerie o il luogo della ricomposizione e della ridistribuzione, o
il luogo della sanzione delle differenze o il luogo della solidarieta', o
il luogo della alienazione o quello della coscienza del singolo che non
puo' non sapere e del controllo sociale. Ritorna qui questa parola
astrusa, usata da Dante e poi piu', "indovare". Costruire cioe'
gli strumenti per potersi riconoscere sul "dove" si sta, dove il
"dove" non e' solo spaziale.
Il
modello americano
Forse sarebbe
valsa la pena di pensare ad un intervento che focalizzasse l'attenzione
sul fordismo (o post fordismo o ex fordismo), anche guardando agli Stati
Uniti , che sono stati la patria del fordismo e una delle patrie del suo
superamento. Ho visto uno dei documenti distribuiti oggi, targato
"Fondazione Agnelli". Notando che in questo documento erano
scritte alcune cose discutibili, ho chiesto come mai era finito nei
materiali: mi hanno spiegato che la ragione essenziale e' contenuta
nell'ultimo paragrafo, dove, in sostanza, si dice che la forte
accelerazione impressa alla deregolamentazione del mercato del lavoro
statunitense ha creato una piccola serie di problemi indicata nelle parti
precedenti del testo. Questa affermazione del documento e' poco meno
ridicola di quella della Chiesa cattolica, che otto anni fa circa ha
riconosciuto che Galileo aveva ragione. Fondazione Agnelli arriva oggi ad
ammettere una realta' esistente da almeno 15 anni, cosa che chi si occupa
di Stati Uniti, di mondo del lavoro e di rapporti sociali sa
perfettamente. La deregolamentazione del mercato del lavoro negli Stati
Uniti e' iniziata verso la meta' degli anni '70: dopo la crisi
petrolifera, quella politico- istituzionale del Watergate, e dopo l'inizio
della penetrazione delle automobili giapponesi, che nell'arco di 10 anni
sono passate da una quota di mercato del 3% al 20% per poi arrivare al
23%. Quindi questa dinamica e' iniziata molti anni fa e, per quanto
riguarda il mercato del lavoro, piu' precisamente quando Reagan, come
primo atto da Presidente, distrusse il sindacato dei controllori di volo
che furono imprigionati e condannati per aver scioperato. E' stato un
segnale: le societa' di desindacalizzazione che avevano cominciato a
crescere come funghi nei cinque, sei anni precedenti si sono moltiplicate
come i replicanti di molti films dell'orrore e, tra il '75 e il '90
l'opera di desindacalizzazione nel mercato del lavoro statunitense e'
avvenuta con una brutalita' eccezionale. E non perche' lo Stato non
interveniva, come dicono alla Fondazione Agnelli, ma perche' lo Stato
interveniva esattamente nella direzione della desindacalizzazione, cioe'
della distruzione dei sindacati, passati dal 30% della rappresentanza
all'interno del mondo industriale all'attuale poco meno del 10%. La
distruzione della forza organizzata del sindacato e' stata una
precondizione assoluta di tutti gli altri processi che sono poi stati (in
parte erano contemporanei) la ristrutturazione, l'introduzione di
tecnologia, la delocalizzazione delle aziende verso le parti del Sud non
sindacalizzato oppure verso i paesi piu' poveri del mondo. Che negli Stati
Uniti non si costruisca piu' un televisore all'interno dei confini e' vero
da quasi 20 anni. Lo dico per pura igiene mentale: leggete pure questo
documento, ma non credeteci. ‚Il tasso di disoccupazione e' a livelli
cosi' bassi da indurre molti a ritenere virtualmente raggiunta una
situazione di pieno impiegoé (recita il documento della Fondazione
Agnelli). Bugie: il tasso ufficiale di disoccupazione e' del 5,2%, il
tasso reale oggi e' almeno del 12% con tutte le possibili, diverse
distribuzioni a seconda dei gruppi sociali, delle fasce di eta', delle
caratteristiche etniche e culturali. Naturalmente poi parlano dell'enorme
numero di posti di lavoro che sono stati creati negli ultimi dieci anni:
15 milioni. Certo, pero' quanti sono stati i posti distrutti? Almeno 7/8
milioni. Quali sono le caratteristiche della stragrande maggioranza dei
nuovi posti di lavoro creati? Sono posti di lavoro nei quali prima di
tutto non si guadagna nemmeno la meta' di quello che si guadagnava nei
vecchi posti di lavoro; sono in settori del terziario povero (e non di
quello avanzato); sono lavori part-time, non coperti dalla
sindacalizzazione, e sono lavori saltuari. Questo vuol dire che una buona
parte, circa la meta', di questi posti di lavoro non garantiscono ai loro
detentori il superamento del livello di poverta'. Quindi quando questa
gente racconta bugie sulla grande quantita' di posti di lavoro creati
mente sapendo di mentire. A proposito della micro imprenditorialita' che
sarebbe nata all'interno di questi nuovi processi di trasformazione del
mercato del lavoro e dell'economia statunitense: negli anni '70 quando in
Italia si parlava del "piccolo e' bello", negli Stati Uniti
c'era una vera e propria campagna a favore di questo slogan e in molti
casi si prendeva a modello proprio il nostro Paese. Sono effettivamente
nate molte micro imprese, ma la mortalita' di queste imprese negli ultimi
dieci anni e' tra il 50% e il 70%. Riferendosi ai salari la Fondazione
Agnelli sostiene che ‚negli anni '90 almeno il 70% dei salariati ha
visto il valore reale delle proprie retribuzioni scendere o rimanere
stagnanteé. Non e' vero: il 100% dei salari di oggi e' inferiore ai
livelli salariali del 1973. Naturalmente non dicono una parola
relativamente all'incredibile polarizzazione sociale, che e' stata uno dei
tratti piu' caratteristici di questa vittoria neoliberista che non e'
soltanto ortodossia economica, e' oggi ideologia dominante negli Stati
Uniti. Infatti il 20% dei piu' ricchi negli Stati Uniti e' padrone
dell'84% della ricchezza famigliare nazionale. Questo significa che al
restante 80% rimane da spartire il 16% della ricchezza nazionale. Subito
dopo nel documento si fa riferimento alla riduzione delle dimensioni delle
imprese, e si sostiene che questo ha trovato ampio spazio sugli organi di
informazione ‚colpendo in senso negativo l'immaginario collettivo
americanoé. L'immaginario collettivo non c'entra nulla: gli americani si
lamentano di quello che non hanno piu' nelle loro tasche. Trattano del
downsizing (di cui si e' occupato seriamente il Times lo scorso anno)
sostenendo che, in questi ultimi anni, riguarda essenzialmente i
cosiddetti colletti bianchi. E' vero, ma riguarda essenzialmente i
colletti bianchi perche' il processo di piazza pulita dei colletti blu e'
avvenuto tra la fine degli anni '70 e la meta' degli anni '80, quando si
e' operata una espulsione dalle fabbriche estremamente brutale. E quando
dico brutale voglio dire di una violenza da guerra. I dati di Torino sono
per molti versi confortanti, ma se qualcuno andasse nella Torino degli
Stati Uniti, Detroit, avrebbe la possibilita' di capire molto rapidamente
perche' quella citta' e' passata da 1 milione e 600 mila abitanti a 940
mila: perche' le fabbriche di automobili che erano una quarantina negli
anni '70 oggi sono sette e interi quartieri operai sono stati
letteralmente rasi al suolo. Perche' dico questo, oltre al fatto di
fornire qualche elemento che permetta una lettura in controluce di queste
bugie? Perche' nel ragionare sul passaggio tra fordismo e post fordismo
dovremmo abituarci a tenere molto conto (e non lo facciamo adeguatamente)
di quello che e' successo in realta' dove questi processi sono cominciati
molto prima che da noi e, prima che da noi, stanno arrivando alla
conclusione. Il sindacato industriale negli Stati Uniti, ridotto al 20%
(vorrei che le cose che ho detto all'inizio non fossero interpretate come
una difesa del sindacato americano, ma un sindacato e' meglio che nessun
sindacato) si e' finalmente accorto di dover cambiare strategia. Questo e'
un altro dato interessante. Il rapporto tra fabbrica e territorio (di cui
si e' parlato oggi) e' l'ultima e la piu' interessante scoperta del
sindacato statunitense, che essendo stato sempre molto chiuso su se stesso
non si e' mai posto il problema dell'organizzazione, dell'articolazione di
questo tipo di rapporto, ma che oggi, arrivato al minimo dei consensi sta
iniziando a pensarci. L'analisi di quel tipo di realta' dovrebbe servirci
per avere il senso delle direzioni possibili di alcune delle politiche che
da tempo hanno iniziato a prendere piede anche in Italia.
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