Un disastro iniziato lontano
Credo che il
disastro sia iniziato nel 1996, quando, dopo la vittoria, il centro
sinistra ha scelto di non costruire una strategia, ma di abbassarsi a
gestire l'esistente.
E questo
e' stato un
primo, macroscopico, errore al quale, in queste ultime elezioni, si sono
sommati errori assai piu' banali.
D'Alema ha pagato e
si e' dimesso perche' ha voluto trasformare queste elezioni in un
referendum tra se stesso e Berlusconi giocato tutto sul piano della
politica nazionale.
Dentro
quell'impostazione c'era un errore di fondo: come ha potuto, infatti,
pensare ad un referendum sul governo, quando in quattordici regioni su
quindici lo schieramento che sosteneva il candidato di centro sinistra
comprendeva anche forze collocate all’opposizione rispetto al governo
nazionale?
Non so come
qualcuno, all'opposizione rispetto al governo nazionale, abbia potuto
facilmente in Piemonte votare Livia Turco, ministro di quello stesso
governo.
Forse
e' una cosa su
cui riflettere.
Altra questione,
relativa alla campagna elettorale. Bisogna smettere di utilizzare il
termine “solidarieta'”, e cominciare a parlare di politiche solidali.
Detto questo vorrei
capire perche' in Lombardia un centro sinistra che sicuramente non ha, in
questi anni, brillato per “solidarieta'”, abbia fatto la campagna
elettorale per Martinazzoli sotto lo slogan "un voto per la
solidarieta'".
Vorrei capire, anche
dal punto di vista della comunicazione di massa, che significato avesse
concretamente un manifesto con quello slogan, che politiche concrete
proponeva: nulla, parole vuote. Si puo' giocare un messaggio come quello
se per cinque anni si sono costruiti riferimenti concreti, per cui chi
vede la parola "solidarieta'" capisce cosa significa
esattamente.
Ancora:
e' vero il
ragionamento secondo cui bisognava convincere il proprio popolo ad andare
a vota.
Il problema di
queste elezioni e' che non si e' capito per cosa andare a votare, per
quale modello, per quale idea di societa'.
L'idea di
societa'
di Berlusconi e' precisa, immediata, palpabile.
Noi non possiamo
semplicemente dire che siamo in disaccordo (chi piu', chi meno) con lui e
che la sua idea di societa' non ci piace.
Sul piano
propositivo non siamo in grado piu' di tanto di dire cosa vogliamo,
infatti ci definiamo "sinistra antiliberista", in negativo, non
in positivo: questo e' un grande limite, nelle situazioni macro, ma anche
nella gestione concreta del quotidiano.
Aggiungo che in
questa citta', al di fuori dei luoghi del lavoro dipendente, l'opposizione
sociale molte volte e' stata gestita, non solo mediaticamente, da tre o
quattro preti.
Non mi
stanchero'
mai di dirlo: quella e' mediazione sociale, non costruzione del conflitto
sociale.
E quando il sindaco
Albertini organizza a Milano la convenzione della societa' civile e del
volontariato, e dall'altra parte interviene Don Colmegna, si tratta di un
prete che riempie un vuoto politico di una sinistra che o non ha nulla da
esprimere, oppure non riesce a superare la soglia di visibilita'.
Ma la Chiesa, anche
nella sua parte piu' avanzata, svolge il suo ruolo: dopo aver sostenuto
alcune cose va a trattare l'assistenza, perche' la Chiesa fa assistenza,
salvo rarissime eccezioni.
Non dico sia
sbagliato dare da mangiare a chi ha fame. Il problema e' lavorare sulle
cause della fame, invece di fare da ammortizzatore sociale.
Sempre sulla
campagna elettorale e sull’immagine.
Martinazzoli
e' una
eccellente persona, ma questo non basta, perche' poi bisogna avere la
capacita' di mobilitare, di comunicare anche attraverso immagini messaggi
forti e un’idea di societa' che vanno ben oltre il dire “sono una
brava persona”.
Ho due grosse
questioni da porre schematicamente, da parte di chi lavora nel sociale a
chi rappresenta i partiti,.
Dalla sinistra Ds,
che dispone del 20% dei consensi interni e che, giustamente, ripropone la
centralita' dei partiti voglio sapere: se Amato e' una sciagura, alla fine
la sinistra Ds votera' Amato, oppure no?
Il problema
e' quello di prendersi responsabilita' storiche altrimenti, scusate il mio
mescolare culture, si svolge lo stesso ruolo dei preti di cui parlavo
prima: lo specchietto per le allodole.
Per quanto riguarda
Rifondazione. Premesso che c'e' stato uno sforzo di apertura, che il
risultato di Milano e' buono, pongo a Rifondazione una questione di fondo:
sono convinto che ci sia almeno un 10% di elettorato a sinistra del centro
sinistra, a sinistra del governo D'Alema, e Rifondazione Comunista, quando
e' andata bene, e' arrivata al 5,1%. Vogliamo porci questo problema?
Bruno Casati ha
dichiarato "siamo coscienti di essere una parte della sinistra
alternativa". Bene, ma da qui, pero', bisogna far partire un
ragionamento.
E' vero che
c'e' un
dato che parte dalla globalizzazione (movimento di Seattle, ecc.).
E' vero che
e' in
corso un processo di americanizzazione dei movimenti, ed io non sono per
questa logica, sono perche' i movimenti sui diritti ritrovino tutta la
loro politicita' in una sintesi, altrimenti si diventa settoriali e si
perde.
Ma ci sono grossi
nodi: sono convinto, ad esempio che buona parte di questo dissenso a
sinistra dal centro sinistra e di opposizione non si riconosca nella
parola "comunista". Sono convinto che questa area sia
antiliberista in modo radicale, rigido, fortissimo, che ponga problemi a
questo tipo di globalizzazione, ma anche che non abbia quell'orizzonte
ideologico, mentre comunemente, forse, ha un orizzonte ideale; sono
convinto che viva la questione del lavoro con modalita' differenti, che
pensi di esaurire il proprio ruolo politico nella militanza sociale,
sbagliando.
Sono in dissenso su
questo con i ragionamenti di Gigi Sullo secondo cui dobbiamo
disinteressarci della politica istituzionale per creare la societa' della
belle anime: la societa' delle belle anime rischia di portare a governi di
destra.
Ma allora, rispetto
a Rifondazione, qui si pone una questione di fondo.
Se Rifondazione
Comunista pensa di continuare a costruire su se' stessa puo' fare
l'opposizione, ma intorno ci sara' o il deserto, o l'americanizzazione dei
movimenti, oppure, prima o poi, qualcun altro costruira' un altro pezzo di
movimento antiliberista con cui poi dovremo fare i conti.
C’e' un’altra
strada: oggi, nel momento in cui ci sono le condizioni favorevoli per
farlo, Rifondazione Comunista si apre davvero. Non so dire con quali
modalita', ma con la consapevolezza di essere una parzialita' essenziale,
forse la parzialita' essenziale; riconoscendo, pero', la propria limitezza
anche in termini culturali ed ideologici, e riunendo, attorno a poche idee
forti un discorso che non puo' che essere di opposizione ma che sappia
andare oltre lo schema, le modalita' con cui oggi Rifondazione Comunista
si cimenta, si confronta, si organizza e si autorappresenta (questo e' un
problema enorme).
Credo che oggi,
paradossalmente, questa possibilita' sia piu' grossa a Milano che da altre
parti.
(testo
non rivisto dall’autore)
E
se invece Hitler...
Il
progetto nazista per il
nord-est Italia
E se la Seconda
guerra mondiale avesse avuto un esito diverso? Con questa immaginosa
ipotesi si sono trastullati politologi, romanzieri e sceneggiatori di
varia estrazione, cercando di proporre scenari piu' o meno plausibili. La
fantasia umana, si sa, ama il paradosso.
C'e' stato anche in
Italia un brillante esercizio letterario di questo genere, riferito pero'
ad un altro conflitto: una gustosa parodia della storia, godibilissima
grazie alla bravura dello scrittore che per certi versi riesce a farla
apparire quasi vera. Con il titolo di "Contropassato prossimo",
Guido Morselli aveva raccontato nel 1975 una Prima guerra mondiale che,
dopo una serie di colpi di scena, vedeva gli Imperi centrali prevalere
alla fine sulle potenze della Triplice Intesa.
A guerra finita,
morto Francesco Giuseppe e deposto il Kaiser tedesco, l'Europa si
organizzava in una Federazione di stampo socialdemocratico ed avviava una
pacifica competizione economica e culturale con la neonata Unione
Sovietica.
Ottimi auspici,
dunque: sennonche' proprio in quei giorni in una piccola galleria d'arte
di Vienna apriva una sua mostra personale uno sconosciuto pittore
austriaco, tale Adolf Hitler... e su questo inquietante presagio il libro
si chiude. Ma al di la' di consimili "divertissements" letterari
qualche prurito di curiosita' potrebbe venir concesso (sempre restando con
i piedi in terra, consapevoli che la storia non si fa con i
"se") circa i possibili esiti della Seconda guerra mondiale
qualora per avventura - o disavventura - le cose fossero andate in altro
modo.
Sommamente
improbabile pensare ad una vittoria sul campo di Hitler, le cui
conseguenze peraltro sarebbero piu' facilmente immaginabili in base ai
suoi dichiarati propositi ed ai suoi atti in corso d'opera; si potrebbe
invece avanzare un'altra ipotesi, non del tutto peregrina, che, se
realizzata avrebbe avuto conseguenze sconvolgenti per l'integrita'
territoriale del nostro Paese.
Poniamo il caso che
nella fase conclusiva della guerra anche Hitler fosse riuscito ad avere
l'arma atomica alla quale i suoi scienziati stavano lavorando; non e' irragionevole supporre che in nome della "Realpolitik" avrebbe
potuto ottenere una pace patteggiata fondata sull'equilibrio del terrore,
con il riconoscimento ai contendenti di sfere d'influenza politiche basate
sulla situazione militare di fatto. E in quella fase (anzi fino agli
ultimissimi giorni del conflitto) la situazione nelle regioni
nordorientali del nostro Paese era inequivocabile. Dopo la caduta di
Mussolini, e piu' ancora dopo l'8 Settembre 1943, la politica nazista nei
confronti dell'Italia Si era venuta delineando con tutta chiarezza,
facendo fra l'altro riemergere con violenza le antiche e mai sopite brame
germaniche (il Drang nach Suden) verso territori gia' appartenuti
all'Impero austriaco.
Sulle provincie di
Bolzano, Trento, Belluno, Udine, Gorizia, Trieste, Pola e Fiume (Zara era
gia' definitivamente perduta) era calata sul finire del 1943 la scure del
protettorato tedesco, impersonato dai proconsoli hitleriani messi a capo
dell'amministrazione civile a sostegno delle truppe occupanti. Le prime
tre, insieme con la provincia di Lubiana annessa a forza nel 1941, erano
entrate a costituire la Zona di operazioni delle Prealpi (Voralpenland)
mentre le provincie giuliane formavano la Zona di operazioni del Litorale
Adriatico (Adriatisches Ku'stenland) rette ciascuna da un Commissario
supremo (Gauleiter) dotato di vastissimi poteri.
Non era una
sistemazione provvisoria dettata dalla situazione militare contingente,
anche se i territori erano stati soltanto sottoposti all'amministrazione
tedesca e non annessi formalmente al Reich; lo prova in modo lampante un
documento dell'epoca, dovuto al dottor Alois Friedrich Rainer, Gauleiter
della Carinzia al momento della capitolazione italiana ma di li' a poco
Commissario supremo per il Litorale Adriatico. Un accurato studio di
Roland Kaltenegger (1), che fa la storia delle operazioni militari
condotte dalle truppe tedesche nella regione adriatica durante gli anni
1944/1945, fornisce infatti fra l'altro il testo di un rapporto
telegrafico inoltrato da Rainer a Berlino il 9 settembre 1943, di cui si
riportano qui alcuni significativi stralci tratti dalla successiva
edizione italiana (2).
L'esordio di Rainer
e' illuminante:
"La soluzione
piu' chiara, nel rispetto del sentimento nazionale italiano, sarebbe il
ripristino del confine italo-austriaco del 1914 (...) Un accordo con la
Croazia deve includere la restituzione di Susak e il passaggio di Fiume
allo stato croato (...). Il restante territorio amministrativo tedesco
viene diviso in tre parti come segue:
1. La provincia di
Lubiana con circa 400.000 abitanti, tutti sloveni. Suggerirei di
riunificare successivamente la Carniola settentrionale, interna e
meridionale in un protettorato tedesco.
2. L'ex contea di
Gorizia e Gradisca, con circa 300.000 abitanti, e il capoluogo Gorizia,
dove vivono all'incirca 100.000 sloveni, 50.000 italiani e 150.000
friulani.
3. L'antica Istria
(capoluogo Trieste con circa 500.000 abitanti, dei quali 150.000 circa
sono sloveni, 100.000 italiani e il resto Cicci e Morlacchi di lingua
serbo-croata.)
E dopo qualche
considerazione sulla situazione politico-militare nella zona, cosi'
continua: "La successiva organizzazione di questa regione, il
ripristino del sangue germanico e tedesco, nonche' la definitiva
demarcazione del confine rispetto all'Italia settentrionale andranno
considerati nella fase postbellica".
Viene poi precisato
che "del Litorale fanno parte anche le isole del Quarnero, Veglia,
Cherso e Lussino; neppure in passato esse appartenevano alla Croazia,(3) e'
quindi devono restare unite al territorio(...)
Tuttavia ho in mente
come condizione finale le marche del Reich costituite dalla Carniola, da
Gorizia e dall'Istria.
Per ragioni di
completezza ricordo in questo contesto che anche il Friuli non e' suolo
del popolo italiano, ma per un numero complessivo di circa 700.000
abitanti 200.000 sono sloveni, l00.000 italiani, mentre i restanti 400.000
sono friulani. Questi sono diversi dagli italiani sia per razza che per
lingua, e fanno parte del gruppo dei ladini delle Alpi e dei romanci, che
in Svizzera si chiamano grigioni, in Tirolo ladini e in Friuli friulani.
La lingua e la coscienza friulana sono intatte."
Fin
qui Rainer. Piu' di una cosa balza agli occhi. Anzitutto, la data: e'
il 9 settembre 19439e solo da poche ore e' stato annunciato
l'armistizio di Cassibile. E' evidente che il piano tedesco era stato
messo a punto da tempo, in attesa che un momento critico ne consentisse
l'esecuzione immediata. Quanto a Rainer, era gia' "in pectore"
il Gauleiter del Litorale Adriatico, e con tale incarico si installera'
infatti a Trieste qualche giorno piu' tardi in base ad un ordine del Führer
del 10 settembre.
Poi, il quadro
etnico. Si ignora da quale fonte Rainer abbia ricavato i suoi dati;
l’argomento, come e' noto, e' sempre stato spinosissimo: le cifre che
riguardano l’appartenenza etnica, in quei territori mistilingui da
secoli, sono state sistematicamente interpretate o forzate in senso
opposto dalle parti interessate, soprattutto dopo la fine della Seconda
guerra mondiale. Dalla proverbiale pedanteria germanica era lecito
tuttavia aspettarsi qualche riferimento piu' scientifico, a parte la
fantasiosa catalogazione che distingue fra italiani e friulani mentre
qualifica i croati dell'Istria come "Cicci e Morlacchi".
Infine, il cinico
accenno al "rispetto del sentimento nazionale italiano" di cui
Rainer pretende di farsi interprete, chissa' in base a quale investitura.
La soluzione finale
era comunque chiara: la formazione delle marche del Reich costituite dalla
Carniola, da Gorizia e dall'Istria, ossia l'annessione pura e semplice di
tutta la Venezia Giulia. Della Tridentina e dell'alto Veneto si sara'
occupato con pari diligenza il suo collega Hans Hofer, nominato a sua
volta Gauleiter del Voralpenland.
Non risulta che il
duce, unico interlocutore italiano del Führer, abbia avuto qualcosa da
eccepire su questa incorporazione di otto province italiane nell'impero
dell'alleato.
Bibliografia
(1)
R. Kaltenegger, “Operationszone Adriatisches Kustenland-Der Kampf um
Triest, Istrien und Fiume”, 1993 Leopold Stocker Verlag, Graz
(2) “Zona
d’operazione Litorale Adriatico - La battaglia per Trieste, l’Istria e
Fiume”, Libreria Editrice Goriziana, 1996
(3)
Per l'esattezza, l'isola di Veglia (Krk in croato) era stata assegnata
alla Jugoslavia alla fine della Prima guerra mondiale.
Il
Sudafrica racconta se stesso
Dagli
orrori dell'Apartheid alle speranze di riconciliazione
Era
il marzo 1960, in una sconosciuta cittadina della zona industriale intorno
a Johannesburg. Si teneva una dimostrazione contro l’obbligo per la
popolazione nera del lasciapassare per spostarsi da una zona all’altra
all’interno del Sudafrica. La polizia aveva improvvisamente aperto il
fuoco: sul terreno erano rimasti 69 manifestanti, per lo piu' colpiti alla
schiena, mentre tentavano invano di mettersi in salvo. Da quel momento il
Sudafrica venne travolto da una guerra civile e razziale tra le piu'
spietate che la storia ricordi.
Per
trent’anni si sono combattuti, da una parte, i Governi del National
Party, a sostegno della politica dell’apartheid, e, dall’altra, i
movimenti di liberazione, guidati dall’African National Congress e dal
Pan Africanist Congress. Solo negli anni ‘90 si sarebbe finalmente
giunti prima al negoziato tra le parti e poi alle prime libere elezioni, a
cui avrebbero partecipato tutti i cittadini sudafricani, a prescindere dal
colore della pelle. Nel 1994, dopo quasi trent’anni di carcere, sarebbe
stato eletto alla Presidenza della Repubblica il leader storico
dell’opposizione, Nelson Rolihlahla Mandela.
L’opinione
pubblica internazionale per decenni ha seguito con interesse e commozione
le vicende sudafricane. Era impossibile infatti restare neutrali: la
contrapposizione tra l’ideologia dei boeri, centrata sul concetto della
superiorita' razziale dei bianchi e sulla necessita' di uno sviluppo e di
istituzioni separate a seconda della razza e del colore, e la spinta
antirazzista e anticolonialista che percorreva l’insieme dei paesi
ex-coloniali, non poteva essere piu' netta e radicale. Appariva
impossibile qualsiasi altra soluzione che non fosse la totale vittoria di
una delle due parti e la piena disfatta dell’altra. Ma non e' stato cosi'.
Intorno
alla fine degli anni ’80 si sono avviati dei negoziati, prima cauti e
diffidenti, poi sempre piu' determinati nella ricerca di una soluzione che
chiudesse con quel tragico passato di violenze. Si e' aperta cosi' la fase
storica del nuovo Sudafrica, non piu' quello del conflitto razziale, ma
della tolleranza e del dialogo tra diversi: dal Sudafrica dell’apartheid
al Sudafrica delle molte razze e culture, il Rainbow Country, la Nazione
Arcobaleno, auspicata dal premio Nobel per la pace, l’Arcivescovo della
Chiesa Anglicana sudafricana, Desmond Tutu.
La
transizione implicava un passaggio molto delicato e insidioso: come
regolarsi nei riguardi dei responsabili di crimini e di violazioni dei
diritti umani commessi nel corso del lungo conflitto? Quale forma di
risarcimento garantire alle migliaia di vittime? Piu' in generale, come
trovare una soluzione che aiutasse l’intero paese a “guarire
dall’odio”?
La
Truth and Reconciliation Commission (TRC), la Commissione per la Verita' e
la Riconciliazione e' stata istituita dal nuovo Parlamento eletto nel
’94, con l’intento di mirare “piu' alla comprensione che alla
vendetta, piu' alla riparazione che alla rivalsa, piu' allo spirito della
comprensione che all’accanimento reciproco”. I sudafricani, a
qualsiasi etnia e cultura appartenessero, dovevano fare i conti con il
loro passato: c’era chi sosteneva la sbrigativa soluzione
dell’amnistia generalizzata per mettere una “pietra definitiva sopra
il passato” ed evitare cosi', con la rimozione, di fare affiorare la
tragica verita' dei fatti.
Altri
consideravano come praticabile soltanto la via piu' tradizionale della
“giustizia dei vincitori sui vinti”, anche se, nella realta'
sudafricana, si era giunti sul piano militare a una condizione di stallo,
che imponeva alle due parti o la via della trattativa o quella di un
ulteriore inasprimento del conflitto che avrebbe fatto precipitare
l’intero paese in una crisi irreversibile.
“Il
passato si rifiuta di starsene tranquillo: ha l’insolita abitudine di
ritornare per perseguitarci”, ha scritto il reverendo Tutu nella
presentazione dei Rapporti Conclusivi della Commissione. La nuova classe
dirigente sudafricana era consapevole di questo terribile pericolo. Se le
vittime non avessero potuto in nessun modo raccontare la loro sofferenza,
ricordando le sevizie subite, la scomparsa dei parenti, i massacri di
giovani armati di pietre e bastoni, quale storia si sarebbe insegnata alle
nuove generazioni? L’oblio collettivo avrebbe prima o poi fatto
riemergere i mostri del passato. Si e' scelta percio' non la strada
dell’amnistia generalizzata, ma quella dell’amnistia individuale,
purche' vi fosse una piena confessione dei crimini personalmente commessi
e la loro motivazione fosse politica. Come ha scritto il Presidente stesso
della Commissione, Desmond Tutu, “la liberta' e' stata concessa in
cambio della verita'”.
Non
solo. Spesso, nel corso della storia, i tribunali sui crimini di guerra si
sono tenuti a porte chiuse: al pubblico e' giunta solo una pallida eco
dell’orrore di cui si discuteva all’interno. Alle sedute della TRC
hanno partecipato al contrario migliaia di cittadini comuni, di tutte le
eta', di tutte le razze. E hanno potuto ascoltare dalla viva voce dei
responsabili la verita' su chi ha ucciso il grande leader nero Steve Biko,
massacrato di botte da cinque funzionari di polizia, solo perche' aveva
preteso di sedersi durante un interrogatorio, senza attendere il permesso
di chi lo interrogava. La radio e la televisione sudafricana hanno portato
nelle case dei piu' sperduti luoghi dell’immenso territorio, le atroci
testimonianze degli ufficiali della polizia politica, responsabili di
avere inflitto torture al leader diciottenne degli studenti neri di Cape
Town, Siphiwo Mtinkhulu, poi di averlo distrutto nel fisico con un veleno
per topi mentre era loro prigioniero, di averlo quindi ucciso con un colpo
di pistola alla tempia, di averne bruciato il cadavere su un mucchio di
legna ai margini della boscaglia e infine di averne disperso le ossa e le
ceneri affinche' nessuno dei suoi parenti o dei suoi amici potesse mai piu'
chiedere giustizia per la sua scomparsa.
La
ricerca della verita' sul passato, per essere autentica e credibile, non
poteva limitarsi solo alla violenza della minoranza favorevole
all’apartheid contro chi l’aveva avversata: doveva portare alla luce
il morbo dell’odio che aveva contagiato intere generazioni in primo
luogo di giovani, sia bianchi sia neri. In una seduta affollatissima della
Commissione, si sono ascoltate le voci smorzate dall’emozione di alcuni
studenti neri che, dopo aver combattuto a sassaiole contro le autoblindo
della polizia, avevano prima abbattuto a colpi di pietra e infine sgozzato
una loro giovane coetanea bianca. La ragazzina si chiamava Amy Biehl, e
non era sudafricana. Dal Canada, dove risiedeva, si era recata in
Sudafrica per studiare i movimenti di liberazione, di cui era
simpatizzante. Alla fine della seduta, i genitori hanno chiesto la parola.
Non hanno avuto parole di condanna nei confronti degli studenti
responsabili della morte della figlia: essi erano il frutto intossicato di
una storia di astio e di brutalita', per combattere la quale Amy non aveva
esitato a lasciare la vita tranquilla della sua universita' canadese.
Avrebbero voluto che il suo sacrificio venisse ricordato da tutti coloro
che si erano affrontati con tanta ferocia, e percio' dichiaravano in quel
momento di creare la Fondazione Amy Biehl, per rendere vivi gli ideali di
reciproca comprensione e di dialogo per i quali la figlia aveva perso la
vita a soli diciott’anni.
I
lavori della TRC e le sue conclusioni, ovviamente, non hanno accontentato
tutti. Molti dirigenti del National Party hanno accusato la Commissione di
faziosita' e soprattutto di aver riaperto antiche ferite che soltanto il
tempo e la dimenticanza avrebbero potuto medicare. La verita' a poco a
poco emergeva, e all’inizio non poteva che provocare nuove fratture.
E’ stato senz’altro sconvolgente, per l’insieme della comunita'
bianca, scoprire che i suoi “ragazzi” non erano stati affatto quegli
esempi di virtu' che avevano fatto credere di essere. Ma era pensabile
un’altra via verso la riconciliazione che non passasse attraverso la piu'
dura verita'? Ed era sufficiente addossare la colpa dei delitti piu'
crudeli, come le torture sistematiche e gli omicidi degli oppositori,
sugli esecutori materiali, accettando la comoda versione dei piu' alti
dirigenti politici di essere stati ogni volta fraintesi? Un ufficiale ha
dichiarato davanti alla Commissione: “L’ordine non era mai esplicito.
Ci dicevano di fare un piano su qualcuno. Il significato, per noi della
Security, era inequivocabile. Dovevamo farlo fuori a tutti i costi. Adesso
dicono che gli assassini siamo soltanto noi”
Dalla
parte opposta, numerosi militanti dell’ANC o del PAC rifiutavano di
essere posti sullo stesso piano dei loro avversari. Essi si erano battuti
per una “giusta guerra”, mentre i loro nemici avevano difeso la causa
dell’oppressione e del razzismo, a piu' riprese condannati dalle stesse
Nazioni Unite. La Commissione ha riconosciuto l’alta motivazione morale
dei combattenti contro l’apartheid, ma ha anche precisato “che chi si
trova su un piano morale superiore, non ha per cio' stesso carta bianca
sui metodi di lotta che utilizza”.
Le
diffidenze e le resistenze sono state passo dopo passo superate.
All’inizio, di fronte alle prime terribili testimonianze delle vittime e
alle confessioni dei responsabili di crimini, la sconvolgente potenza
della verita' e' stata cosi' abbagliante da suscitare una reazione di
angoscia paralizzante nell’intero paese. Poi si e' compreso che la lunga
e difficile strada della riconciliazione nazionale non poteva non
attraversare l’inferno delle pene inflitte e di quelle subite. Molti
sudafricani, neri, bianchi, coloured hanno voluto capire non soltanto cosa
fosse accaduto, ma perche' e in quale modo si fosse potuti giungere fino
all’abisso di disumanita' in cui stavano insieme precipitando. Al di la'
della brutalita' dei fatti, e' affiorata allora la verita' sulla cultura
dell’odio e del disprezzo che li avevano resi possibili. Il capo di una
cellula terroristica dell’estrema destra nazional-socialista, ha
riconosciuto che la ideologia che aveva respirato fin da bambino in
famiglia lo aveva portato a considerare i neri degli esseri a tal punto
inferiori, che non avrebbe mai pensato di poter diventare amico di alcuni
di loro, come gli era successo dopo averli conosciuti in carcere. Un nero
accusato di aver massacrato a colpi di machete decine di persone, solo
perche' appartenenti a un’etnia diversa dalla sua, e che ha ammesso di
non aver distinto tra adulti e ragazzi, in quanto “i serpenti generano
solo serpenti”, ha spiegato quanto fosse satura di rabbia e ferocia la
esistenza quotidiana in uno dei tanti ghetti per africani: “Non era piu'
una vita da uomini quella di allora. Uno spirito si era impossessato di
noi. Se devo nominarlo oggi, lo chiamerei lo spirito del demonio.”
Un
colonnello ha dichiarato con disarmante sincerita' di aver potuto
torturare e far assassinare gli avversari neri, perche' non riusciva a
credere che “anch’essi potessero davvero soffrire come noi.” Alla
fine della seduta dedicata alla sua richiesta di amnistia, la madre di una
delle sue vittime ha detto: “Spero che oggi il colonnello Van V. si sia
finalmente reso conto che anche i babbuini provano dolore”.
Nelson
Mandela ha scritto: “Nei lunghi anni di solitudine in carcere, la sete
di liberta' per la mia gente e' diventata sete di liberta' per tutto il
popolo, bianco o nero che sia. Sapevo che l’oppressore era schiavo
quanto l’oppresso, perche' chi priva gli altri della liberta' e' prigioniero dell’odio,
e' chiuso dietro le sbarre del pregiudizio e
della ristrettezza mentale. L’oppressore e l’oppresso sono entrambi
derubati della loro umanita'. Da quando sono uscito dal carcere, e' stata
questa la mia missione. Affrancare gli oppressi e gli oppressori”.
(Lungo cammino verso la liberta'. Pag. 578. Nelson Mandela, Ed.
Feltrinelli). La prigionia dell’odio ha generato e generera' senza
tregua orrori: la eccezionale esperienza della TRC e' che contro di essa
talvolta si puo' combattere e vincere.
Costa Pelata: frammenti di una battaglia
partigiana
E’
ancora buio pesto quando li hanno svegliati. L’allarme sulla puntata dei
tedeschi e dei fascisti e' arrivato prima di mezzanotte: l’indicazione e'
di contrastarli verso Costa dei Cavalieri.
Non
c’e' niente di caldo da mettere nello stomaco, bisogna solo coprirsi
alla meglio e uscire. La cascina di Ponticelli, una piccola frazione poco
sopra Godiasco, viene lasciata in fretta.
Fuori,
nonostante le stelle a volonta', tira un vento freddo che ricorda
l’inverno.
Gia',
l’inverno. Quasi tre mesi di stenti e sofferenze, pidocchi e poco cibo.
In abbondanza solo neve e ancora neve, anche oltre un metro e mezzo.
Sotto
l’urto del tremendo rastrellamento le formazioni si erano ridotte di
molti effettivi. Sia per le indicazioni dei comandi che consigliavano il
rientro nelle citta' per non offrire il grosso dei reparti alla
distruzione (una scelta certo non semplice e non attuabile da molti) vuoi
per le perdite subite. Per chi era rimasto erano stati i giorni delle
“tane di volpe”, delle buche scavate per nascondersi di giorno dai
tedeschi e dai repubblichini uscendo di notte per non rimanere paralizzati
dal freddo e dalla fame. In quel periodo i contadini non avevano mancato
di far sentire il loro appoggio in tanti modi, arrivando a cancellare le
tracce sulla neve per evitare di far scoprire quei ragazzi rintanati nei
posti piu' incredibili, anche se con molta piu' paura e preoccupazione di
prima. La primavera che si avvicina sembra lasciarsi alle spalle tutto
questo. Ma la guerra non e' di certo finita.
Il
rastrellamento invernale inizia il 23 novembre 1944. E’ condotto da
reparti fascisti di bersaglieri della “Littorio” e della
“Monterosa” ed ingenti forze tedesche, due divisioni, compresa la 64a
divisione Turkestan composta da ex prigionieri di guerra sovietici di
origine asiatica come ghirghisi e calmucchi - saranno denominati
“mongoli” dagli abitanti delle zone colpite - ai quali viene concessa
carta bianca nei saccheggi e contro la popolazione civile. L’attacco
parte dal Pavese e dal Piacentino, raggiunge velocemente Varzi (liberata
dai partigiani nel settembre con l’istituzione di una Giunta Popolare
Comunale) e Bobbio, per concludersi a meta' dicembre. Per settimane gli
scontri si susseguono. Solo la formazione garibaldina “Capettini”,
composta da molti elementi del luogo, rimarra' in alta Valle Staffora e
Valle Curone. Per l’intero mese di gennaio il rastrellamento continuera'
come una vera e propria “caccia all’uomo”. I partigiani si
sottraggono alla distruzione: si sfiancano in marce forzate per passare
attraverso le file nemiche, scompaiono nei boschi e nei cimiteri isolati,
si nascondono nelle buche. Molti sono gli scontri isolati, tanti i
partigiani caduti nella neve per cercare di contrastare la morsa dei
brigatisti neri e dei tedeschi.
I
segnali di ripresa del movimento partigiano si evidenziano a partire da
febbraio con la battaglia dell’Ortaiolo o Ceneri. In pratica i
partigiani dimostrano di essere in grado di colpire il nemico anche dopo
un ripiegamento, non piu' il colpire e sganciarsi del primo periodo. Per
questo i nazifascisti scelgono di impegnare forze e mezzi per rioccupare
il territorio collinare. Costa Pelata, con il successo delle forze
partigiane, segna il crollo di questo disegno.
Hanno
preso posizione. Da qualche ora sono li', fermi dentro uno spelacchiato
boschetto, proprio sotto quella costa che tutti chiamano Pelata, vuoi
perche' battuta dal vento o forse per via di quell’unica, esile pianta
alla sommita'. Sono ormai le sette e il cielo si e' aperto mostrando un
azzurro intenso. E’ allora che Milan e' andato su, quatto quatto, per
sporgersi oltre il pendio e vedere cosa succede in direzione della
pianura, Fortunago e Casteggio in primo luogo.
L’imprecazione
in dialetto e' uscita nitida: ridiscende veloce sull’erba e lancia
l’allarme. “Arrivano, sono li sotto, i mongoli…”.
Cosi'
sono chiamati in Oltrepo.
Sono
diventati tristemente famosi durante tutto il rastrellamento per la loro
ferocia contro gli abitanti, per le loro selvagge violenze contro le
donne. Milan li ha visti salire a ventaglio, in formazione da
rastrellamento. Sono guidati da ufficiali tedeschi che, a colpi di
fischietto, li manovrano. Avanzano lentamente, non conoscono la
consistenza dello schieramento partigiano. In realta' il distaccamento
della Casotti e' composto da pochi uomini, non piu' di una quindicina, con
armamento leggero. C’e' soltanto il fucile mitragliatore Bren di Sole a
garantire una maggiore potenza di fuoco.
Ma
l’allarme per il nemico che avanza di fronte si somma all’improvviso
per un nuovo pericolo che arriva alle spalle.
Dalla
strada che porta a Zavattarello sono comparsi infatti i primi fascisti ed e'
subito un rapido scambio di colpi. Sono della brigata nera
“Spiotta” di Chiavari.
Non
sembrano pero' molto determinati o forse i loro comandanti sono indecisi
non riuscendo bene a capire che situazione si sta determinando. Anche loro
temono di essere colti alle spalle da altri partigiani, non hanno una
valutazione chiara dei rapporti di forza. Si bloccano. Alzano una bandiera
bianca e chiedono di parlamentare. Il capitano incontra Tino e lo saluta
romanamente, ha in risposta un saluto militare dal commissario del
distaccamento. Breve scambio di frasi. In realta' i fascisti vogliono
prendere tempo – aspettano rinforzi e approfittando della tregua si
spostano a lato delle posizioni partigiane per ricongiungersi con i
tedeschi. Una classica manovra a tenaglia che apre il combattimento.
I
mesi di febbraio e marzo 1945 sono fondamentali per la riorganizzazione
delle fila partigiane. Non solo dal punto di vista militare ma anche
politico. Il 27 febbraio a Zavattarello, una riunione promossa dal comando
partigiano della VI zona, vede la nascita di un comando unico di
coordinamento di tutte le forze operanti nell’Oltrepo (e' il Settore
Operativo Oltrepo Pavese). A guidarlo e' Americano (Domenico Mezzadra, che
e' rimasto alla testa dei garibaldini nei giorni duri del rastrellamento),
suoi vice sono il giellista Gianni (Pietro Ridella) ed il comandante
garibaldino Maino (Luchino dal Verme). A capo di stato maggiore e' indicato Paolo (Paolo Murialdi).
L’accordo
sara' successivamente perfezionato ai primi di aprile e portera' alla
costituzione di un Comando Zona Militare Oltrepo, conforme alle direttive
del Comando Generale del Corpo Volontari della Liberta'.
Costa
Pelata e' una battaglia che si spezza in una serie di scontri intensi, che
mutano continuamente di posizione. Per tutta la giornata la collinetta
viene persa e ripresa dai partigiani. Quattro volte di salite e discese
per quel costone tra le pallottole che fischiano, con attacchi a colpi di
bombe a mano, gli uomini che si fronteggiano da vicino…
Ed
in mezzo a tanta tensione, paura e fatica c’e' anche bisogno di
mangiare. Cosi' nel pieno degli scontri ci pensa Maino: porta del pane,
uova sode e due fiaschi di vino. Sono offerti dai contadini. Quel povero
cibo da spartire in troppi aiuta il cuore, forse, ancor di piu' dello
stomaco perennemente vuoto. Testimonia, ancora una volta, l’appoggio
concreto di chi sa bene che il successo della puntata nazifascista sarebbe
una ulteriore pagina di lutti e sofferenze per tutti.
Nella
cascina ci sono donne e bambini.
Non
si sono accorti di niente, troppo intenti a capire da dove arrivano gli
spari e le grida. I traccianti incendiano la stalla. Piemonte e Giacomo
scendono di corsa ad avvertire gli abitanti e ad aiutarli a spegnere le
fiamme. Gli animali vengono fatti uscire - 2 o 3 mucche, alcune capre e un
cavallo - mentre una o forse due mitragliatrici tedesche proseguono il
loro tiro.
Due
contadini, Giovanni Antonielli e Giuseppe Bonelli, cadranno colpiti quasi
al termine dello scontro.
Arrivano
anche gli aerei. Probabilmente inglesi. Due caccia bombardieri che
scendono in picchiata, provocando anche preoccupazione tra i partigiani,
vista la mobilita' delle posizioni. L’effetto positivo e' determinato piu'
dalla loro presenza – che lascia sgomenti i rastrellatori – che non
dall’efficacia delle raffiche che incidono il terreno attorno alla
Costa.
Nella
continua riconquista e abbandono di posizioni Piemonte e Giacomo incappano
in tre brigatisti neri. Faccia a faccia si ritrovano con le armi puntate.
Piu' giovani dei partigiani, infagottati nelle divise dimostrano meno di
diciotto anni. Pochi attimi e lasciano cadere i mitra. Si buttano in
ginocchio, sono spaventati, cosa fare? Un rapido sguardo tra i due.
Qualche esitazione. Poi “Via, via, andatevene…e non fatevi piu'
vedere”. L’ordine e' raccolto al volo e i tre giovanissimi fascisti,
abbandonato l’equipaggiamento, se la danno a gambe.
Non
e' cosi' per tutti. Piovono colpi improvvisi e rabbiosi. Non e' chiara la
direzione. Ma Giorgio, un deciso contadino che conosce quei posti come le
sue tasche, ha una intuizione e si avvicina deciso verso il condotto di
cemento lanciando un sonoro “Ve' fora Bobi…”. Per il fascista che ha
continuato a sparare di nascosto – un quarantenne dall’accento
toscano, ben consapevole della scelta fatta, e' l’ora di saldare i
debiti.
E’
il tardo pomeriggio, quando “…dopo due giorni di lotta il nemico
stanco, demoralizzato, duramente provato, rientrava in disordine alle sue
basi senza avere realizzato alcuno degli obiettivi prefissi…le nostre
formazioni garibaldine hanno durante il combattimento ricevuto il
cameratesco ed entusiastico appoggio delle formazioni Giustizia e Liberta'…”.
Cosi' la sintesi di Toni in un rapporto del CVL terza divisione Lombardia
“Aliotta” di qualche giorno successivo allo scontro.
Ai
piedi della Costa e' rimasta una piccola stele, porta i nomi dei due
contadini uccisi e di altri partigiani caduti nei pressi o in altri
scontri.
Ogni
anno i protagonisti di quei giorni si ritrovano – senza dubbio piu'
lenti e impacciati di quando correvano su quella china, si chiamano per
nome, riallacciano ricordi e ravvivano vecchie polemiche - per ricordare
quella “…battaglia decisiva per la storia delle nostre montagne”
come sta scritto sul cippo corroso dalle stagioni.
Il
tempo che scorre e' oggi l’avversario, forse, piu' pericoloso.
Offre
una sponda a chi vuole rimuovere, tentare di cancellare, rivisitare,
negare valore e verita' alla memoria…ma come scrisse un partigiano
“..se dunque piu' dei malanni o della morte ci pesa l’ipocrisia
dominante, oh non temete. Questo abbiamo fatto e questo restera' luminoso
come il sole sulle foglie del monte”.
Gli
uomini e le donne che si riuniscono ogni marzo in quella curva della
strada, incrociando gli sguardi interrogativi dei gitanti domenicali o dei
ciclisti frettolosi, ne sono ancora convinti.
Breve
bibliografia
-
Barioli – A. Casati – M. Cassinelli “Storia
della resistenza in provincia di Pavia” Pavia 1959
-
L. Ceva “Una battaglia partigiana” Quaderni del M.L.I. 1966
-
C. Ferrario – F. Lanchester (a cura di) “Oltrepo partigiano” Pavia
1973
-
P. Lombardi “I CLN e la ripresa della vita democratica a Pavia”
Pavia 1983
-
U. Scagni “La Resistenza e i suoi caduti tra il Lesima e il Po” Varzi
1995
-
U. Scagni “Il comandante Americano e la resistenza garibaldina in
Oltrepo pavese -Varzi 1998