Partito
dei Comunisti
Italiani -
Federazione Metropolitana di
Milano
Per
una Milano dell'ecosviluppo e della cura
Maria
Carla Baroni
-
maggio 2006 -
Penso sia meglio non
dedicare troppo tempo a elencare le malefatte della destra e i guasti che
ha prodotto in questa città in quindici anni di gestione, in quanto tutti
e tutte noi, abitando e/o operando a Milano, li conosciamo benissimo e ne
patiamo quotidianamente le conseguenze.
Mi pare
però indispensabile sottolineare il denominatore comune dei fenomeni, in
parte mondiali e in parte locali, che hanno portato alla situazione
attuale, e cioè la progressiva perdita di ruolo e di senso
dell’approccio pubblico nel governare la vita associata, ovvero
dell’interesse collettivo o generale che dir si voglia.
I
fenomeni mondiali sono stati prima le modificazioni tecnologiche e
produttive dei decenni ’70 e ’80, che hanno trasformato Milano da città
industriale a città terziaria, e poi (dalla metà degli anni ’80) quel
complesso di fattori che chiamiamo globalizzazione neoliberista e che
hanno generato un fenomeno particolarmente grave per la vita delle
persone: la precarizzazione del lavoro, in Italia non solo consentita ma
anche incentivata dalle leggi di questi ultimi anni, prima il “pacchetto
Treu” e poi la terribile legge 30/2003.
A
seguito di tutto ciò Milano è diventata emblematica del passaggio da una
realtà produttiva in cui era egemone l’essere e il pensarsi al lavoro
in forma collettiva e stabile, a una situazione - largamente prevalente -
di piccole e piccolissime unità produttive in cui si è al lavoro in
forma individuale e, sempre più spesso, precaria.
Parallelamente
hanno agito a livello locale (lombardo e milanese) altri fenomeni
tenacemente perseguiti dalla destra. In primo luogo sono stati portati
avanti il depauperamento quantitativo e qualitativo dell’insieme dei
servizi pubblici e l’ impostazione privatistica sul piano degli
obiettivi, dei destinatari e degli strumenti delle politiche formalmente
rimaste pubbliche, con particolare evidenza e con effetti particolarmente
devastanti nell’ambito dei servizi sociali, sanitari ed educativi.
L’impostazione secondo cui ai bisogni di tutti e di tutte si rispondeva
con servizi pubblici collettivi, a qualità costante e abbastanza
garantita, è stata sostituita dalla logica individualistica, abolendo i
servizi di prevenzione e trasformando diritti e servizi in assistenza
ai/alle più bisognosi/e e in prestazioni che occorre trovarsi da sè , e
restringendo progressivamente anche l’area delle opportunità formative
e culturali di cui questa città, un tempo, andava fiera.
Questo
processo è stato accompagnato da una ideologia che per un verso enfatizza
tutto ciò che è privato (anche se il privato significa peggioramento dei
servizi e delle condizioni di
lavoro e aumento dei prezzi per l’utenza), e per l’altro verso
svilisce, come inefficiente e marginale, tutto ciò che è pubblico.
E in
effetti durante i due mandati del sindaco Albertini sono stati
privatizzati enti gestori di
servizi a rete, che un tempo contribuivano efficacemente a pagare servizi
comunali di base di buon livello, mentre ora generano profitti da giocare
in Borsa, ed è stata privatizzata una gamma sempre più estesa di attività
e di servizi che per molti decenni ci eravamo abituati/e a considerare
pubblici: privatizzazione che i soggetti politici milanesi e la
popolazione hanno contrastato solo in forma
sporadica e debolissima, sottovalutando la gravità di una
trasformazione che a poco a poco modificava non solo assetti di potere, ma
anche comportamenti e mentalità, e peggiorava le condizioni di vita dei
più.
Come
risultato di tutti questi processi e fenomeni, l’aspirazione diffusa al
benessere collettivo e a una certa socialità è stata sostituita dal
cercare di cavarsela da sé come meglio si può , per molti come ricerca
di sopravvivenza e per molti altri come ossessione della sicurezza
individuale rispetto alla piccola criminalità, fino ad arrivare, talora,
a farsi giustizia da sé.
Da Milano è partita (insieme alle controriforme privatistiche
della sanità e della scuola), anche la distruzione di un principio
ritenuto basilare fin dalla legge urbanistica nazionale del 1942 e cioè
che fosse, e dovesse essere, pubblico
il governo dell’uso del suolo, che è elemento primario e fondante in
quanto contenitore di tutte le attività umane; e anche se in Parlamento
non è definitivamente passato (per la fine della legislatura) il progetto
di legge Lupi (onorevole di Forza Italia ex assessore milanese
all’urbanistica), noi ci troviamo tuttora
sul gobbo la legge regionale 12/2005, che ha fatto saltare quel
patto tra interessi collettivi e interessi privati in merito all’uso del
suolo che era il Piano Regolatore Generale, ora sostituito – in
Lombardia - da uno strumento che, nonostante sia denominato Piano di
Governo del Territorio, non è affatto un piano.
Vediamo
dunque, in estrema sintesi, la condizione attuale di Milano.
L’occasione
storica del riuso delle aree industriali dismesse
(alla fine degli anni ’80 oltre 9 milioni di metri quadrati) è
stata quasi interamente, e volutamente, sprecata a favore di edilizia libera
(con la quale sono stati realizzati pezzi di città senza servizi, né
spazi di aggregazione, né anima e, per di più, recintati)
e verde condominiale; la casa per i ceti a basso reddito e per i giovani
e le giovani coppie è un problema
gravissimo e lo diventa sempre più anche per i ceti medi; la mobilità è basata, ancora e sempre, sull’uso individuale
dell’auto privata e sulle grandi opere viarie, in controtendenza
rispetto a tutte le grandi città del pianeta e alle stesse indicazioni
dell’Unione Europea; il pochissimo verde esistente nella città
consolidata e gli edifici e i luoghi
di maggior pregio storico-artistico-culturale
sono minacciati o addirittura distrutti da
interventi inconsulti; il capitale finanziario e la rendita immobiliare si
sono rafforzati rispetto alle attività industriali e al profitto e si è
fortemente attenuata quella diversificazione produttiva che era stata per
molti decenni il cardine della forza
economica della città; lo
spostamento all’estero di attività di ricerca, progettazione e sviluppo
da parte di gruppi multinazionali; il degrado non solo edilizio ma anche
sociale dei quartieri di edilizia popolare,
la desertificazione delle periferie con la rarefazione dei
servizi pubblici di base e con la sparizione progressiva di negozi e
artigiani (causata dall’eccesso di grande distribuzione commerciale
e da affitti spropositati), e
l’aumento delle persone povere (150.000 persone,
tra vecchie e nuove povertà), completano
il quadro. Milano e la pianura padana sono tra le aree più inquinate del
pianeta e Milano è la città più vecchia d’Europa, oltre a essere
diventata, nel 2004, la più
cara, senza avere il livello di servizi che caratterizza ad esempio
Londra, Parigi e Berlino.
Questa
è la città “privatizzata” che la destra ci consegna; questa è la
città generata dal libero andamento dell’economia, del mercato e della
rendita finanziaria e immobiliare, mentre la giunta comunale è stata a
guardare, compiaciuta, i progetti urbanistici dalle volumetrie
spropositate e
peggiorativi delle condizioni di vita urbana (City Life alla Fiera,
Garibaldi-Repubblica- Isola-DeCastillia, Quartiere Adriano, ecc.), ha
costruito megastrutture viarie (come il sovrappasso multipiano di
piazza Maggi) e avviato la
realizzazione di autostrade urbane
(Gronda Nord) e di
megaparcheggi a rotazione in centro (Darsena, piazza S.Ambrogio,
piazza Meda, ecc.) e il taglio degli alberi (Bosco di Gioia, piazza Napoli, piazzale
Accursio, via Vittadini, piazzale Novelli, ecc.ecc.).
Parlo
di città “privatizzata” in quanto la destra non si è limitata a
privatizzare enti, attività e servizi, ma ha cominciato a costruire un
modello di città in cui il ben essere degli abitanti non conta nulla e i
problemi sociali e umani non vengono affrontati con l’intento di
risolverli, ma separati, in modo da non disturbare i privilegiati: questo
è il senso dei quartieri di edilizia libera, spesso di lusso, recintati
(a cominciare da Milano 2 della Edilnord negli anni ‘60): recintati quasi come i ghetti
per ricchi delle metropoli USA e delle megalopoli del Sud del mondo. E
questo è il senso della cancellata di piazza Vetra, fatta, per separare i
tossicodipendenti dai benestanti abitatori del centro, nonostante
l’opposizione e la lotta dei comitati degli abitanti. E questo è il
senso del tener vuoto e del
tentare di vendere lo stabile di piazzale Dateo, troppo bello per chi ha
bisogno di edilizia popolare… Non
dimentichiamo che “privato” significa proprio che è stato privato, e
quindi è privo, della dimensione pubblica.
Nel dibattito avvenuto
in questi ultimi mesi all’interno del Cantiere dell’Unione di
centrosinistra si è spesso sostenuto che non dobbiamo essere catastrofici
e che a Milano ci sono anche situazioni di eccellenza: è vero, ma se non
si guarda in faccia alla realtà, lucidamente e a tutto campo, come e dove
trovare obiettivi, strumenti e risorse per cambiare rotta? Se la diagnosi
dei mali della città non è fatta connettendo tra loro i vari fenomeni,
e, soprattutto, se non si coglie la causa di fondo che accomuna tutte le
forme di peggioramento della vita urbana milanese, e cioè il prevalere
dei grandi interessi privati sempre e dovunque e comunque, come è
possibile riprogettare la città?
Il Partito dei Comunisti Italiani tiene questo
convegno a pochi giorni dalla presentazione del programma dell’Unione e
lo propone come contributo all’attuazione migliore possibile di questo
programma, per cui non insiste su ciò su cui tutti e tutte
concordiamo, ma pone l’accento
solo su ciò che si può ancora
migliorare e fornisce alcuni approfondimenti tematici su questioni nodali.
Noi
abbiamo contribuito all’elaborazione del programma comune, inserendovi
punti assai qualificanti come l’Agenzia nazionale dell’Innovazione, la
città dell’ecosviluppo, le politiche a sostegno del piccolo commercio e
dell’artigianato nelle periferie (compresa la riduzione dell’ICI e
delle tariffe comunali), e lo
consideriamo nel complesso un buon programma, meritevole di farci
vincere le elezioni amministrative; tuttavia il programma dell’Unione è talora generico e, a tratti, assai debole, e alcune questioni
meriteranno, a vittoria ottenuta, spentesi le luci talora un po’
ambigue della campagna elettorale, una
seria riconsiderazione.
In ogni
caso qualsiasi programma è una dichiarazione di intenti e tra lo scrivere
e il fare c’è un ampio spazio per
approfondire e riconsiderare e vi è il diritto/dovere di
realizzare al meglio quanto è già buono e di migliorare quanto è
carente.
Noi
preferiamo dire che occorre “riprogettare” Milano e non solo farla ripartire o cambiarla o
migliorarla, perché Milano ha bisogno di un grande salto di qualità,
di un progetto alto, in grado di riqualificare contemporaneamente
territorio e ambiente, attività produttive in ogni settore (terziario,
industria, agricoltura, turismo), condizioni di vita dal punto di vista
materiale e culturale, relazioni sociali e umane; di un progetto in grado
di mobilitare contemporaneamente
tutte le energie – politiche, sociali, culturali, progettuali,
imprenditoriali – pur nella diversità dei ruoli tra i vari soggetti che
operano nella città e pur nel permanere degli interessi particolari, che
sono talora, per certi aspetti, contrapposti, come nel caso dei lavoratori
e dei datori di lavoro.
Secondo
noi questo progetto alto e unificante, nell’interesse pubblico e
collettivo, cioè nell’interesse di tutte le persone che in questa città
abitano e operano (anche per
tempi e periodi limitati), consiste nel fare di Milano la città dell’ecosviluppo e della cura e cioè una
città all’avanguardia – contemporaneamente
- nella vivibilità sia ambientale sia sociale, per tutti e per tutte,
uomini e donne, bambini e bambine, vecchi e vecchie.
Tre
condizioni sono indispensabili per avviare e poi realizzare questo
progetto:
1)
un assetto dei pubblici
poteri che attribuisca funzioni, poteri e risorse al giusto livello,
articolato sulla Città metropolitana, sulle Municipalità all’interno
dell’attuale Comune di Milano e sui Circondari come aggregazioni degli
altri Comuni per aree omogenee;
2)
il ritorno al primato del
pubblico in ogni campo e settore;
3)
il riappropriarsi della città
da parte dei cittadini e delle cittadine mediante tutti i possibili
strumenti di partecipazione popolare alle scelte di governo e mediante la
gestione diretta di alcune attività e servizi di base..
Vediamo
queste tre condizioni, che rappresentano anche nodi politici, a nostro
parere ineludibili.
Per
quanto riguarda l’assetto
dei pubblici poteri, concordiamo tutti e tutte sulla necessità di
trasferire funzioni, poteri e risorse ai Consigli di Zona per avviarne la
trasformazione in Municipalità, cioè in veri e propri Comuni, e per
ridefinire gli ambiti delle attuali 9 zone/municipalità, e
conseguentemente il numero, in modo da diminuirne la popolazione di
riferimento e da valorizzare le caratteristiche –anche
storico/culturali- dei vari
quartieri in vista della trasformazione delle periferie in vere e proprie
città.
Sono
però scomparsi dal programma i
precisi impegni per avviare il processo di costituzione della Città
metropolitana che erano presenti nelle Linee guida elaborate dal Cantiere
lo scorso anno. Ed è difficile capire perché
questo sia avvenuto, visto che Linee guida e programma sono frutto degli
stessi soggetti. E così si assiste alla proposta di istituire una Agenzia
metropolitana per la mobilità, urgente e indispensabile – nello stato
di cose attuale – per realizzare ad es, l’integrazione tariffaria e
per trasformare l’attuale rete, spezzettata per ambiti comunali, in un
sistema efficiente di mobilità pubblica
che serva unitariamente, al di là dei confini amministrativi dei
singoli Comuni, tutta l’area che costituisce da decenni un’unica
continuità urbanizzata.. Ma proporre e istituire tale agenzia senza
assumersi, contemporaneamente, precisi impegni
per la Città metropolitana significa sì riconoscere che i
problemi di Milano non possono essere affrontati e risolti nell’ambito
ristrettissimo dell’attuale Comune, ma significa pure che si vuole
procedere mediante tecnostrutture settoriali invece che realizzando
livelli di governo complessivi con la potestà di pianificare il
territorio, in tutte le necessarie forme di tutela e di uso, e con una
rappresentanza istituzionale democraticamente eletta.
Talora
si parla, a proposito di Milano, di città “infinita”, addirittura di
città “ectoplasmatica”, oppure di indistinta “regione urbana
milanese”;
e se è ovvio che l’influenza di Milano e la sua capacità attrattiva
sono spalmate su un territorio assai vasto, oltre gli
stessi confini regionali, dovrebbe essere altrettanto ovvio che non si può
governare un territorio, le sue attività e suoi soggetti nell’interesse
collettivo se non si delimita con chiarezza un territorio e se non lo si
affida alla responsabilità di istituzioni forti,
partecipate e complessive. L’indispensabile coordinamento con i
livelli di governo territorialmente confinanti si può e si deve trovare
con strumenti come la copianificazione territoriale, gli accordi di
programma e simili, ma creare incertezza e confusione sull’ambito dell’istituzione che
dovrà sostituire, con ben maggiori poteri, l’attuale Provincia di
Milano significa, a nostro
avviso, non operare per
l’interesse collettivo.
Prima
di passare alla seconda condizione, ed entrando nel dibattito che ha visto
proporre anche la cancellazione dell’assessorato al Decentramento in
coerenza all’avvio delle Municipalità, a noi pare che proprio
l’importanza e la delicatezza di questo processo richiederebbero
una struttura in grado di promuoverlo concretamente e di accompagnarlo
quotidianamente: proponiamo per questo ruolo un Assessorato
alle Nuove Città, che si faccia carico di organizzare concretamente
anche la trasformazione delle periferie in nuove città, coordinando gli
interventi a ciò necessari.
In
merito al ritorno al primato del pubblico
il programma dell’Unione è abbastanza sfumato: questo ritorno è
chiaramente presente nelle politiche sociali e dei servizi territoriali,
ma non viene preso alcun impegno a non effettuare future privatizzazioni
di enti e attività e nulla viene detto sul possibile ritorno nella sfera
pubblica, allo scadere dei contratti di affidamento a privati, di attività
fondamentali per il ben essere di gruppi importanti di popolazione, come
ad esempio la gestione delle case popolari di proprietà del Demanio e le
mense scolastiche, che dovrebbero entrare a far parte di politiche per la
salute dell’età evolutiva. Ma il principale banco di prova di questo
aspetto sta nella politica urbanistica e noi riteniamo che l’impegno
preso in merito ai progetti approvati dalla giunta Alberini sia troppo
debole.
In merito,
infine, alla partecipazione, il
programma dell’Unione afferma un principio fondamentale quando dichiara
che il Piano di governo del territorio sarà elaborato “d’intesa con
le forze economiche e sociali in un procedimento partecipato dai cittadini
“ e poi anche quando afferma che “il Comune si prefigge di redigere un
Bilancio sociale e ambientale partecipato”; in un altro passaggio, però,
si limita a citare l’”urbanistica partecipata”, senza prevederne i
possibili strumenti e tralasciando la ricchezza di proposte contenuta
nelle Linee guida e soprattutto nel documento del Forum delle Donne per
Milano (comitati di autogestione nei quartieri di edilizia popolare,
comitati di controllo sull’erogazione dei servizi a rete, comitati delle
utenti per la gestione
dei
Centri Donna polivalenti, dei consultori e dei nidi, consiglio comunale e
consigli di zona dei ragazzi e delle ragazze).
Anche
questo è un tema da riprendere e arricchire,
sia formalizzando nello Statuto del Comune precisi istituti di
partecipazione, sia creando le condizioni politiche e culturali generali
per dare spazio a nuove forme di partecipazione che dovessero nascere
nella città.
Chiarite
queste precondizioni fondamentali, entriamo nel concreto di alcune
proposte.
Fare di
Milano la città dell’ecosviluppo significa puntare all’eccellenza
ambientale, contemporaneamente, in ogni
aspetto dell’organizzazione urbana, con un approccio
pianificatorio e
programmatorio complessivo,
intersettoriale e integrato. Ci sono già esempi in questo senso, sia
in Italia (Varese Ligure, Brunico), sia in Europa (Friburgo), ma si tratta
di comunità piccole e medie, mentre avviarsi sulla stessa strada in una
città grande e importante come Milano avrebbe una valenza ben maggiore.
Partiamo
dalla produzione industriale, considerando l’intero ambito dell’area
metropolitana milanese, in quanto, anche per questo aspetto, non avrebbe
senso limitarsi all’attuale Comune.
Puntare
all’ecosviluppo in campo produttivo significa:
1)
non dare per scontata e irreversibile la parziale, ma grave,
deindustrializzazione dell’area metropolitana, con la sua schiera di
chiusure, ridimensionamenti e delocalizzazioni di attività e perdita
di posti di lavoro;
2)
assicurare uno sbocco
continuativo e stabile nel
tempo ai numerosissimi servizi alle imprese che caratterizzano
l’economia della città, i quali prima
o poi crollerebbero come un castello di carte se continuasse a ridursi la
produzione industriale;
3)
mettere in rete e ridare un ruolo di eccellenza alle università
milanesi e ai tanti centri di ricerca pubblici e privati e finalizzare la
ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica alla produzione di beni
che portino ricchezza e lavoro e che, nello stesso tempo, servano alla
tutela dell’ambiente e della salute o, quanto meno, che non siano più
nocivi; come esempi della prima possibilità ci sono la riconversione
ecologica delle attività produttive esistenti di ogni dimensione e
l’impianto di nuove produzioni sostenibili, ad es. nel campo del
risparmio energetico e delle energie rinnovabili, per nuovi materiali da
costruzione, per motori e carburanti ecologici, nel riuso sempre più
esteso degli scarti di lavorazione e dei residui urbani e nella stessa
riduzione alla fonte di scarti e residui; come esempio della seconda
possibilità vi è il rilancio dell’industria chimica e il rinverdire i fasti
dell’istituto di Chimica “Giulio Natta” del Politecnico a partire
dall’applicazione più avanzata possibile del REACH, il regolamento per
la registrazione, valutazione e autorizzazione delle sostanze chimiche
voluto dagli ambientalisti e approvato a novembre dal Parlamento europeo,
ricordando che le imprese che arrivano
per prime a produrre in modo innovativo acquistano un vantaggio
competitivo notevole.
In
questa prospettiva l’Agenzia
nazionale per l’innovazione non dovrà limitarsi alla multimedialità
e al digitale, ma, soprattutto, cogliere appieno la sfida che le verrà
posta proprio dall’essere sita nella città e nell’area più inquinata
e nella città che costituisce la principale interlocutrice dell’Europa
nel nostro paese; dovrà avere al suo interno anche il Comune e la
Provincia di Milano; essere propulsiva a livello nazionale, ma anche
costituire la cabina di regia delle esperienze in atto e in progetto nel
nostro territorio, come ad esempio l’EcoCittà dell’Ambiente della
Scienza e dell’Industria sulle aree ex Alfa di Arese
. Fare
di Milano la città dell’ecosviluppo per quanto riguarda il territorio
significa in primo luogo rifiutare il modello di città della destra e cioè
bloccare i progetti urbanistici
partoriti dalla speculazione
immobiliare, riconsiderare
(nell’interesse generale della città e in modo partecipato) le
attività che vi sono
previste e individuare
soluzioni progettuali in grado, quanto meno, di
coniugare i diritti edificatori dei proprietari delle aree con le esigenze
di vivibilità ambientale e
sociale degli abitanti, bene prezioso da far nascere dove non esiste
e, coerentemente, da tutelare – invece che distruggere - dove esiste già;
e, appena possibile, rinegoziare
con le proprietà non solo la riconfigurazione, ma anche la diminuzione delle volumetrie edificabili previste dai progetti.
Che
senso avrebbe,. ad esempio, costruire un nuovo grattacielo per uffici
comunali al Garibaldi-Repubblica nella prospettiva delle Municipalità?
Come
esempio di come sia possibilissimo conciliare i diritti edificatori dei
proprietari con la qualità urbana e con il ben essere degli abitanti
citiamo il progetto elaborato dal
Comitato I Mille in alternativa
alle stravolgenti proposte del Comune sulle aree Garibaldi Repubblica
Isola De Castillia. E come
esempio di come migliori la qualità di un progetto e come diminuisca
notevolmente il suo impatto negativo nei confronti del tessuto urbano
circostante solo se ci si pone l’obiettivo di progettare anche
nell’interesse pubblico, citiamo le proposte
di revisione al progetto Fiera-Citylife
elaborate da un gruppo di studenti del Politecnico sotto la guida del
prof. Giuseppe Boatti. E ricordiamo che tale progetto è stato fieramente
avversato anche e soprattutto dagli abitanti e dalla loro associazione
Vivi e Progetta un’altra Milano.
Per una
Milano dell’ecosviluppo dovremo, in secondo luogo, elaborare
il Piano di Governo del Territorio a partire da tre elementi cardine:
1)
la ricognizione completa
delle aree di proprietà pubblica (anche se formalmente divenute
private come nel caso delle Ferrovie) dismesse
o comunque inutilizzate o dismissibili;
2)
l’individuazione delle
attività importanti da spostare o insediare ex novo nelle attuali periferie, per decongestionare il centro e soprattutto
come volano per attribuire alle periferie tutti quegli elementi
qualitativi che non hanno mai avuto, cioè per
trasformare le periferie
in vere e proprie città (Milano
come città di città: progetto che non può non prevedere la
riqualificazione complessiva e realmente partecipata di tutti i quartieri
di edilizia popolare, ben oltre i 5 attualemnte interessatoi dai Contratti
di Quartiere);
3)
la riconsiderazione
complessiva delle linee di forza del trasporto pubblico (linee
ferroviarie e metropolitane) per valutare tracciati, priorità, risorse e
tempi, opportunità o meno di soppressione di linee e stazioni, come ad
es. la Stazione di Porta Genova; e perché non prendere in considerazione,
ad esempio, la proposta della Metropolitana 4 – Linea Circolare delle
Università – lanciata da VivereMilano?
Dovrebbe
essere chiaro a tutti e a tutte, però, che le aree pubbliche inutilizzate
o in dismissione sono l’ultima occasione per dotare la città di ciò
che veramente occorre agli abitanti: verde realmente pubblico e fruibile;
edilizia popolare di qualità, servizi e attività di eccellenza non
collocabili in edifici già esistenti, luoghi per la cultura e
l’aggregazione come musei, spazi espositivi, biblioteche, Case delle
Culture diffuse in tutta la città.
Ma le
aree pubbliche dismesse o in dismissione non sono illimitate e occorrerà
trovare una compatibilità di
sistema tra le varie utilizzazioni necessarie e possibili: è proprio
questo il senso di un piano e, nonostante il fatto che la legge regionale
12/2005 preveda l’elaborazione, da parte dei Comuni, di un semplice
documento (anche se chiamato piano di governo del territorio),
è proprio un piano che dovremo
elaborare, che tragga la sua forza, invece che da una legge, dalla forza
della partecipazione e del
consenso.
Ora
qualche flash in tema di mobilità a integrazione del programma dell’Unione.
Una
città di città e una città dell’ecosviluppo
non possono non prevedere- rispettivamente- il
potenziamento del trasporto pubblico
soprattutto in senso trasversale e interperiferico e la progressiva sostituzione
degli attuali autobus con altri che usino motori e carburanti ecologici. Da
ultimo i parcheggi a rotazione in
aree centrali già in fase costruttiva dovranno essere quanto meno trasformati in parcheggi per residenti, e il servizio taxi, che a nostro parere non richiede il rilascio di
ulteriori licenze, dovrà essere
reso efficiente con una migliore localizzazione e dotazione dei punti
di servizio, con la risistemazione degli strumenti a supporto (apparecchi
telefonici, segnaletica dei depositi, ecc.) e con una maggiore flessibilità
d’uso delle vetture, da concordare con la categoria più direttamente
interessata.
Veniamo
ora alla città della cura: una
città che ha cura di se stessa, come un’unica risorsa di tutti e di
tutte, che conserva, recupera e
riusa tutto ciò che ha di bello, ma
che pure si evolve e si
rinnova, in modo armonico con l’esistente; una città di cui tutti e
tutte gli/le abitanti si prendano cura come se fosse una grande casa
comune, per renderla più viva e più bella; una
città che risponde ai bisogni
fondamentali di tutti e di tutte (salute, casa, istruzione, lavoro), ma
che considera anche la cultura
diffusa e la bellezza diffusa come bisogni fondamentali.
La città
della cura è anche quella che si prende cura di tutti e tutte gli e le
abitanti, ovunque siano nati/e; da
vivere anche a piedi, amica di bambini e di bambine, di vecchi e di
vecchie; con servizi pubblici di buon livello e luoghi di cultura e
aggregazione e negozi diffusi dappertutto.
Due
proposte concrete, a integrazione del programma dell’Unione:
il recupero di tutte le cascine storiche (di proprietà del Comune) per
farne Case delle culture, Centri Donna polivalenti, Case di accoglienza di
zona per senza casa, ostelli della gioventù, servizi sociosanitari o
educativi di base (proposta che incarna il doppio significato di città
della cura); e l’apertura festiva e serale di biblioteche, di spazi espositivi e
culturali, di parti comuni di scuole (palestre, auditorium) e sedi di
Consigli di zona e di impianti sportivi
in modo che vi si possano svolgere attività, anche autogestite, e
che la città sia più vissuta, più
viva, più partecipata, e, di conseguenza, anche più sicura.
Concludo
questa carrellata di proposte per una città partecipata, insieme utopica
e possibile, con due proposte che ampliano il tema di una città che, pur
aprendosi sempre più al nuovo, sappia anche conservare la memoria di sé:
un Museo dei Movimenti
(operaio, studentesco, delle donne) e la nuova figura della “narratrice/narratore
della città”, per curare, valorizzare e far conoscere la memoria
collettiva in senso storico, architettonico e antropologico.