| RELAZIONI
       Pierluigi
      Sullo Fulvio
      Perini   
        |  | La
            Fiat "oltre Torino" Torino "oltre la Fiat"
         |  Marco
      Revelli   
        |  | Persistenza
            e trasformazione del lavoro eterodiretto
         |  Vanna
      Lorenzoni   
        |  | Il
            territorio come struttura spazio temporale dei rapporti sociali: fra
            produzione e valorizzazione immobiliare
         |  Marvi
      Maggio  
       COMUNICAZIONI
      E INTERVENTI   
        |  | Ricomposizione
            e internazionalizzazione: il passaggio difficile del sindacato
         |  Giorgio
      Cremaschi   
        |  | Dentro
            e fuori le mura della fabbrica
         |  Aldo
      Bonomi   
        |  | La
            Compagnia Unica del Porto di Genova: un'esperienza comunitaria
         |  Amanzio
      Pezzolo   
        |  | La
            Fiat nell'epoca della globalizzazione
         |  Loris
      Campetti   Bruno
      Cartosio   
        |  | Dal
            "maschio adulto garantito" al lavoro di cura in appalto
         |  Carla
      Quaglino   
        |  | Valorizzare
            la devianza positiva
         |  Gianni
      Marchetto   
        |  | La
            sfida delle donne: imparare da Pechino
         |  Alessandra
      Mecozzi   
        |  | La
            densita' del lavoro
         |  Gabrielo
      Polo   
        |  | Lo
            sguardo femminile nel conflitto sociale
         |  Maria
      Grazia Campari   
        |  | Radicalita'
            e obbiettivi concreti
         |  Alfonso
      Gianni   
        |  | La
            formazione: le parole per fare
         |  Alida
      Novelli   
        |  | La
            retorica della fine del lavoro
         |  Riccardo
      Bellofiore   
        |  | I
            centri sociali tra alternativa al capitalismo e capitalismo
            alternativo
         |  Luigi
      Roggero   
        |  | Autonomia
            dal "governo amico"
         |  Andrea
      Morniroli  
      
      
       ******************   Il
      ponte  della
      Lombardia periodico
      di commento critica
      progetto   Editore Comedit
      2000   Presidente Paolo
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      Trib. MI n.
      304 maggio 1992   
     |  | Da Venezia a Torino Sono qui per darvi il
      benvenuto a nome del mio giornale, il manifesto e perche' sono
      stato una delle cause (insieme a Mario Agostinelli, Aldo Bonomi, Paolo
      Cacciari, Marco Revelli e Francesco Indovina) dell'incontro - analogo a
      questo - che si e' tenuto a Venezia nel novembre scorso, dove discutemmo
      dei conflitti nel post-fordismo estremista del nord-est. Con questo
      incontro di Torino le cause, cioe' i promotori di questo genere di lavoro
      diventano molto numerosi: e infatti potremmo chiedere a Giorgio Cremaschi
      - che appunto a Venezia propose di vederci qui sul lato opposto del nord
      d'Italia - di aprire il prossimo appuntamento, che terremo forse a Milano,
      o forse a Napoli o - come qualcuno ha proposto - a Gallipoli. Percio', mi
      limitero' a dire in poche parole che senso, che valore noi del manifesto
      attribuiamo a questi incontri, e anche al loro - chiamiamolo cosi' -
      stile. Probabilmente tutti voi siete lettori del nostro giornale, percio'
      avrete potuto notare che nelle ultime settimane gli autori del libro che
      ha aperto - sia nel senso di "cominciato" che in quello di
      "allargato" - il dibattito in italiano sulla globalizzazione e
      il neoliberismo, parlo di Rossana Rossanda, Pietro Ingrao e Marco Revelli,
      hanno scritto sul manifesto tre ampi articoli, il cui numero di righe era
      direttamente proporzionale alla difficolta' dei problemi che sollevavano.
      Ingrao ha scritto all'indomani del congresso del Pds e a proposito non
      tanto dello scontro tra il segretario della Cgil e quello del Pds, ma
      sulla cultura di quest'ultimo e - di conseguenza - dell'urgenza che una
      sinistra nuova (o altra, o prossima, o futura, si scelga l'aggettivo che
      si vuole) traduca gli alfabeti della modernita' e ricrei con cio' un senso
      comune in grado di unire e di mettere in movimento, contro l'esclusione e
      l'oppressione. E quanto Ingrao avesse bene intuito l'urgenza lo capiamo
      ora, mentre ci domandiamo - un po' smarriti - se avremmo potuto fare
      qualcosa per evitare che la piu' grande ondata razzista che si ricordi ci
      sommergesse, e che i nostri - i nostri - governanti si comportassero - ha
      detto in un'altra occasione Ingrao - "come barbari", e che di
      conseguenza alcune decine di esseri umani in cerca di soccorso fossero
      annegati nel Canale di Otranto. Faro', se permettete, solo una piccola
      digressione, su questo avvenimento. Del resto, fa parte dello stile di
      questi incontri: ciascuno ci mette se stesso. Per questo gli appelli per
      Venezia e per questo incontro di Torino erano firmati da persone. Quel che
      ci metto io, oggi, e che vorrei comunicarvi, e' la sensazione di aver
      subito l'umiliazione piu' grande dacche' faccio politica. Non mi ero
      sentito cosi' - come mi sono sentito la sera di Venerdi' Santo - nemmeno
      il giorno in cui la radio della macchina su cui viaggiavamo diede con la
      voce di Piero Scaramucci, del Gazzettino Padano, la notizia che a Brescia
      una bomba era esplosa in Piazza della Loggia, durante una manifestazione
      sindacale, nel maggio del '74. In fin dei conti, a quell'epoca ci
      combattevamo tra noi italiani, e i volti dei nostri avversari li vedevo
      tutti i giorni - o ero convinto di vederli - in quelli delle bande
      fasciste per le strade, in quelli dei celerini dietro lo scudo di plastica
      e, la sera, nel telegiornale. Ed era una lotta tra forti, quella che si
      combatteva in quegli anni, sebbene una delle due parti usasse metodi
      sleali e feroci. Questa volta non era cosi'. Sono state persone della mia
      cultura e della mia lingua a rendersi colpevoli di un crimine contro
      altri, stranieri; ed e' stato un governo che ho sentito in qualche misura
      simile a me, quando si e' insediato. Soprattutto, quegli 83 esseri umani
      erano infinitamente piu' deboli. E il solo dubbio di far parte, mio
      malgrado, dell'infinitamente piu' forte, per di piu' sleale e feroce, e di
      esserne in qualche modo complice non e' per me tollerabile. Percio' ho
      anch'io una tremenda fretta di ritrovare un senso comune: uno che, per
      esempio, semplicemente senta gli albanesi in fuga come nostri eguali e
      nostri possibili alleati. Ecco, il fatto e' che sono stanco di lutti.
      Negli ultimi mesi, i due avvenimenti che principalmente mi hanno impegnato
      sono il fatto che tre miei amici sono stati mandati innocenti
      all'ergastolo. E poi, l'ho detto, c'e' stata la convulsione razzista che
      ha reso grottesca la faccia dei giornali e della politica, dell'opinione e
      del senso comune opposto a quello che Ingrao vorrebbe. Ma - giusto un anno
      fa - venni a Torino, per un certo periodo, a indagare su un terzo lutto:
      era la morte per annegamento di quel ragazzo marocchino cui un poliziotto
      aveva messo le manette, sulla banchina dei Murazzi, poco lontano di qui:
      speciale e personale anticipazione del Canale di Otranto. Quel poco che so
      di Torino l'ho imparato in quelle settimane. E parlare con decine di
      marocchini, senegalesi e loro amici italiani mi ha mostrato di questa
      citta' una angolatura molto diversa da quella - storica - della citta'
      degli operai, e certamente opposta a quella - "europea" -
      dell'attuale sindaco. Dicevo dei tre articoli. Di quello recente di Marco
      Revelli mi ha colpito l'uso della parola "vuoto". Marco scriveva
      dei vuoti che nella trama fordista urbana apre la modernita', cioe' il
      ritirarsi della grande fabbrica. E leggendo mi sono chiesto se la chiave
      di lettura non stia, banalmente, nel guardare a quei vuoti come al loro
      opposto, ovvero dei "pieni", cioe' come a qualcosa che cresce
      prima di tutto distruggendo, e in seguito ripopolando e rimodellando
      l'esistente, la citta', in forme ai nostri occhi aliene. I Murazzi, per
      esempio, sono stati un campo di battaglia, in cui si scontravano da una
      parte la modernita' della citta'-vetrina, arma nella competizione tra
      metropoli europee per conquistare fette del mercato della comunicazione
      finanziaria e sociale, con tutto il suo corredo di speculazione
      immobiliare e di ridislocazione fisica degli esclusi; e, dall'altra parte,
      la modernita' dei sottomercati illegali o para-legali della forza-lavoro
      senza diritti e delle droghe. E' chiaro che i Murazzi non avranno mai piu'
      gli scopi commerciali, di trasporto fluviale, che i suoi costruttori
      attribuivano loro. Ma in questo vuoto e' cresciuto un "pieno" di
      relazioni sociali, un groviglio in cui cominciamo solo ora a dipanare i
      diversi interessi. Non e' affatto impossibile, per continuare
      nell'esempio, che il flusso finanziario che nasce, ruscello, nel momento
      in cui un marocchino vende una stecca di hashish a un piccolo borghese
      torinese, vada a finire nelle stesse banche che finanziano
      ristrutturazioni immobiliari e ridisegni del piano regolatore. Non e'
      forse questo il meccanismo che spiega l'"emergenza" di San
      Salvario? Incidentalmente, la guerra dei Murazzi ha lasciato sul terreno
      il corpo di un ventiquattrenne di Casablanca, di nome Khalid Moufaguid. Io
      sono convinto che l'immigrazione, cioe' la relazione tra "noi" e
      "loro", sia a un tempo una grande metafora e il cuore della
      modernita' neoliberista. Noi ora indaghiamo sulla segmentazione dei
      lavori, e sulla flessibilita' che anche il segretario del Pds invoca.
      Ebbene, i piu' flessibili di tutti sono loro, gli stranieri che nelle
      piazze della cintura torinese mettono in vendita il loro lavoro
      giornaliero. Noi ci inquietiamo per la rottura progressivamente piu' grave
      del patto di inclusione che correntemente chiamiamo Welfare State, senza
      il quale i diritti politici e d'espressione diventano bucce senza polpa,
      puri fregi del presidenzialismo che il segretario del Pds promuove.
      Ebbene, questo patto non e' mai esistito per un milione e oltre di
      lavoratori e di lavoratrici, e di esclusi, che hanno nomi balcanici o
      islamici. Noi ci chiediamo - ed e' quel che io ho ricavato principalmente
      dall'articolo di Rossana Rossanda, scritto in risposta a Revelli e a
      proposito dell'incontro di oggi - che senso abbia, qui e adesso, la
      nozione di "blocco sociale", ovvero come sia possibile mettere
      in relazione i nuclei resistenti di apparato fordista - della cui
      permanenza Cremaschi ci ha tutti convinto - con le nuove figure sociali
      altrettanto - sebbene diversamente - sfruttate. Qualche tempo fa ci
      rendemmo conto - stavo chiacchierando con il mio direttore, Valentino
      Parlato - che un importante anniversario, il sessantesimo della morte di
      Antonio Gramsci, cade il 27 aprile, due giorni dopo il 25 e il giorno
      prima del 28, che e' il compleanno del giornale, una data cui siamo
      affezionati. Allora, scherzando, dissi a Valentino: perche' non
      organizziamo un convegno, su Gramsci, intitolandolo non "americanismo
      e fordismo", ma "europeismo e post-fordismo"? Valentino mi
      mando' al diavolo, ma a ben pensarci non era una cattiva idea. Quando per
      esempio si adoperano le parole "progetto" o
      "politica", ha scritto Rossana, o per lo meno questo ho capito,
      queste non si devono tradurre con "incentivi all'industria" e
      con "stato nazionale". Ma un problema - diciamo cosi' - che
      consiste nell'avere una direzione di marcia da indicare ai soggetti piu'
      diversi, e che tendenzialmente li unifichi, questo problema e'
      urgentissimo. E, aggiunge Rossana, ha per lo meno le dimensioni
      dell'Europa, il nostro nuovo "spazio nazionale", come dimostrano
      la vicenda Renault, le lotte di resistenza in difesa degli stati sociali -
      cioe' di una standard di civilizzazione solo europeo - o, di nuovo, le
      legislazioni sull'immigrazione. E viceversa quando Revelli scrive le
      parole "territorio" e "socialita'", queste non vanno
      intese come tentazione di abbandonare, o guardare con indifferenza a
      quella dimensione del problema, o ancora l'idea che in quei vuoti occorra
      infilarsi come in "zone liberate", ma come la risposta alla
      domanda su dove e come si possano trovare i singoli mattoni di un nuovo
      edificio - europeo, globale - sul cui portone si potra' scrivere
      "blocco sociale". Almeno, io cosi' capisco quando leggo Revelli.
      Penso che abbiamo fatto bene, a organizzare questo incontro. Fin da subito
      ci siamo resi conto - era facile - che il nord-ovest mostra una
      contraddizione piu' violenta, rispetto al nord-est, non solo tra aree di
      produzione e modi di lavoro differenti, e che in qualche modo convivono;
      ma tra percezioni e coscienze differenti, tra lavoratori e comunita' delle
      diverse aree e zone produttive. Ma proprio per questo si puo' sperare che
      - sebbene in questa forma peculiare - Torino possa dare una risposta al
      problema di cui parlavo, e che e' quello del nuovo secolo: come il ciclo
      capitalista, modificando le vecchie forme della produzione e
      intrecciandole alle nuove, possa alla fine creare una miscela di
      soggettivita' desiderose del cambiamento. E', questa, una risposta che
      Torino, e le sue fabbriche, hanno gia' fornito almeno due volte, in questo
      secolo. Noi del manifesto, insieme a molti altri compagni, tra i quali
      particolarmente quelli della Cgil e della Fiom, ci siamo adoperati perche'
      ci si disponesse a cercarla, quella risposta. Tocca a questo dibattito,
      farlo.
 
       Il
      territorio nella tradizione sindacale torineseIl mio e' un contributo
      parziale, come punto di vista e come argomenti. Nella tradizione del
      movimento sindacale, fabbrica e territorio sono sempre state visti come
      due entita' separate. L'una come conseguente dell'altra, ma separateƒ
      Venti anni fa, la Cgil si era rifiutata di pubblicare un libro dal titolo
      "La salute: dalla fabbrica al resto del territorio" sino a
      quando l'autore non accetto' la proposta della Cgil: "La salute:dalla
      fabbrica al territorio". E' lo stesso autore che mi suggerisce ancora
      oggi un gioco: sostituire la parola innovare con la parola indovare, prima
      di sapere dove si va e' utile sapere dove si sta. Lo spaesamento e' ormai
      un grande fenomeno di massa. Dal punto di vista ambientale lo spaesamento
      e' perdita dell'orientamento in uno spazio che non si conosce. Dal punto
      di vista psicologico, quando la mappa geografica diventa mappa cognitiva,
      non si resta mai spaesati a lungo, scatta il fenomeno della dissonanza
      cognitiva, per evitare di cadere nella malattia ti fai una ragione anche
      delle cose che non capisci. Diventi un uomo giustificato. Conviene tentare
      di capire. Non sono affatto convinto che le differenze, nella nostra
      discussione, stiano solo sui fini e sui mezzi. Abbiamo prima di tutto modi
      diversi di guardare il mondo, che ci conviene rendere espliciti, per
      quanto ne siamo capaci.
 Riflessioni di un
      sindacalista empirico sul cambiamento produttivo e socialeSvolgiamo questo convegno qualche giorno dopo la conclusione del processo
      a Romiti per falso in bilancio. Una persona che, se si osserva il suo
      curriculum personale ha fatto nella vita tante cose ma e' difficile
      affermare che se ne intenda, che sa come viene fatta un'automobile o un
      camion. Una persona che gestisce una holding composta da oltre 1.100
      societa'; che lavora sicuramente molto e quindi riesce a dedicare,
      mediamente in un anno, due ore per societa', 10 minuti al mese, meno di 4
      minuti alla settimana. E' anche una persona, se le indiscrezioni sono
      veritiere, che ha dedicato piu' di un'ora alla decisione se risarcire o
      meno, prima della conclusione del processo, la famiglia di un lavoratore
      della ex Grandi Motori colpito da tumore per la esposizione all'amianto.
      Mi diventa cosi' piu' chiaro cosa possa essere il "capitale
      astratto", continuando ad avere una certa difficolta' a capire cosa
      sia invece il "lavoro astratto". Il lavoro e' il prodotto delle
      donne con l'ausilio degli uomini. Poi, non prima, si esprimono le forme
      sociali del lavoro. Quella costruzione politica che ha opposto il lavoro
      astratto al capitale ha fatto nascere nel mondo la madre di tutte le
      burocrazie. Mentre oggi il terreno del conflitto sta proprio nella
      resistenza di una parte importante degli esseri umani al crescente dominio
      del capitale astratto. Nella tradizione della sinistra legata al movimento
      operaio, il "modo di produzione" e' sempre stato la categoria
      per capire ed interpretare. Il "processo lavorativo" e' sempre
      stato considerato indifferente. Le "condizioni di produzione"
      ignorate. La riproduzione scontata. Il territorio, o meglio la natura nel
      territorio, e' stata produzione durante la nascita della manifattura:
      l'uso della energia termica locale ( il termine "padrone del
      vapore" aveva un preciso significato, niente affatto simbolico) e
      l'uso della energia animale ( uomini, donne e fanciulli) non avveniva con
      particolari distinzioni. Solo successivamente con Taylor, prima di Ford,
      il territorio e' diventato pienamente "condizione di
      produzione", mentre l'energia fisica e' data dall'energia elettrica e
      l'uso dell'energia animale si e' concentrato sull'uomo medio: maschio ed
      in eta' tale da rendere al massimo per un certo numero di anni. Il
      territorio doveva sostenere la crescita dell'industria con la produzione e
      la manutenzione della forza lavoro, con i trasporti e con le
      comunicazioni, con un assetto urbano che seguisse l'espansione della
      fabbrica. Con Ford il territorio era luogo di consumo e di controllo
      sociale della forza lavoro. Con Keynes il territorio assumeva un ruolo
      particolare usato con la domanda pubblica e statale a sostenere la
      produzione nelle fasi di crisi. Perche' il plusvalore potesse continuare a
      diventare valore, intervenendo sulla espressione piu' evidente della
      crisi: quella da mancato realizzo. Concretamente - a Torino - erano le
      case Fiat, la Malf, gli asili nido Fiat, il dopolavoro...e le schedature (
      politiche, ma anche sulla moralita' dei lavoratori...). Piu' in generale,
      il sostegno della domanda avveniva con la costruzione delle autostrade e
      la progettazione della citta', dei luoghi di consumo in funzione dell'uso
      dell'auto. Non siamo ancora all'esaurimento del paradigma del lavoro
      produttivo fordista eppure credo si possa fare la previsione che questo
      avverra', perche' sono venuti a mancare, come si dice, gli ambienti di
      sviluppo che hanno permesso una certa evoluzione della tecnologia,
      dell'uso degli esseri umani e delle forme sociali di riconoscimento dei
      rapporti di scambio.
 Fabbrica e territorio
      nella esperienza del movimento operaioLa CGIL di Torino e' stata per lungo tempo un punto di riferimento per la
      sinistra, sino a diventare un luogo comune. L'intervento sulla
      organizzazione del lavoro ed i delegati unitari di gruppo omogeneo hanno
      rappresentato una parte importante di questa esperienza. Quel documento
      antico, del 1955, sulle condizioni di lavoro nella piu' grande fabbrica
      italiana, la Fiat Mirafiori, e' un buon contributo per capire come i
      delegati non siano stati una invenzione, ma soprattutto per misurare le
      differenze con la situazione attuale. Per fare un esempio, come si e'
      passati dal servizio prestiti aziendale alla distribuzione quotidiana di
      depliant di finanziarie ai cancelli dello stabilimento. A Torino, la linea
      di azione nella prima meta' degli anni '70 fondata sullo slogan ‚dalla
      fabbrica alla societa' é ha, non a caso, trovato una particolare
      applicazione attraverso un fase molto breve della esperienza
      dell'articolazione delle lotte per le riforme sociali; la scuola, la
      sanita', i trasporti e come salario indiretto sino alle vertenze per
      destinare 1'1% del salario ai servizi sociali. I Consigli di Zona dei
      delegati dovevano diventare l'espressione del controllo operaio sul
      salario indiretto, in sostanza di una parte importante dello stato
      sociale. Era altrettanto evidente come l'esperienza di zona era concepita
      e praticata come pura proiezione della azione rivendicativa di fabbrica.
      Non e' una esperienza ripetibile, eppure la nostra cultura di militanti
      sindacali torinesi non pare sia cambiata piu' di tanto. Tant'e' vero che
      non esiste alcun altro progetto in campo. Ora siamo a 22 sabati di lavoro
      aggiuntivo, alle 2-3 settimane di ferie, alla estensione del turno di
      notte. Venti anni fa, di questi tempi, eravamo al blocco degli
      straordinari alla 127, ai picchettaggi ogni sabato assieme ai disoccupati.
      Alla unificazione delle liste del collocamento tra uomini e donne, alla
      chiamata pubblica al collocamento. Cosa avevano, come dice molte volte
      Gianni Marchetto, nella "zucca" quegli uomini nel 1977, e cosa
      hanno quelli di oggi. E cosa hanno le donne ? E ci sono, e quali sono le
      forme di riconoscimento collettivo ?
 La rottura del giocoInsomma e' intervenuta solo una soluzione di continuita' soggettiva, nella
      percezione del gioco, oppure e' anche cambiato il gioco? Il ventesimo
      secolo era cominciato con l'ottimismo creato da una moneta forte e dal
      gold standard; termina con il cinismo creato da flussi di incontrollabile
      finanza internazionale e da montagne di irraggiungibili debiti. Per me la
      rottura sta qui. La socialita' dell'impresa fordista si va perdendo. La
      sovranita' dello stato nazionale si offusca. Lo stato sociale tende a
      diventare asociale. I valori del lavoro e del prodotto tendono ad essere
      sostituiti dal valore del possesso. Andranno meglio discusse le ragioni di
      questo rovesciamento, di come il limite all'uso della merce fittizia terra
      abbia spostato la ristrutturazione sulla merce fittizia lavoro. Del
      perche' alla globalizzazione dell'economia e della produzione si
      accompagna, con questi meccanismi della politica e delle economia, un
      percorso che portera', nei prossimi 25 anni, gli abitanti della terra
      senza acqua potabile da un miliardo e 400 milioni a 3 miliardi e da 1
      miliardo e settecento milioni senza casa a 3 miliardi e 200 milioni, e non
      tutti nel sud del mondo. Del perche' la produttivita' del lavoro possa
      raddoppiare e, contemporaneamente, possa invece dimezzarsi la redditivita'
      dell'impresa. Perche' la difficolta' delle imprese si presenti sempre come
      crisi da costi e non si presenti piu' come crisi da realizzo, anche
      quando, per esempio, lo stato decide i finanziamenti per la rottamazione.
      Come e' avvenuto alla Renault, e vedremo tra un po' quale sara' la
      situazione alla Fiat. Nella competizione globale, la crisi da costi ci
      riporta un po' al punto di partenza: al territorio come fattore di
      produzione. Non piu' solo per le risorse che mette a disposizione, fisiche
      ed animali, ma per i saperi accumulati, i sistemi cooperativi stabiliti, i
      ponti con il mondo lanciati. Soprattutto perche' il territorio e'
      esistenza, e l'esistenza costa. Cade la finzione, tayloriana, del gorilla
      ammaestrato, il gioco si fa esplicito: bisogna ammaestrare gli uomini. Non
      solo per il loro sapere ed il loro saper fare, anche per la loro
      educazione, formazione, salute, vecchiaia, la casa. Tutto entra nella
      competizione. Non solo il salario monetario. Emergono con maggiore
      evidenza le contraddizioni. Le lotte sono gia' in corso: la valorizzazione
      di Torino con l'alta velocita' trova la resistenza della popolazione e di
      tutti gli amministratori della Val di Susa che subirebbero un effetto
      opposto. Torino puo' fare l'inceneritore nel luogo meno abitato del suo
      territorio ma gli abitanti di Grugliasco e di Beinasco che confinano non
      hanno la stessa opinione. L'affacciarsi di queste questioni richiede un
      altro modello di esistenza prima che di sviluppo. I comportamenti di
      resistenza che hanno caratterizzato le lotte sociali di questo periodo
      hanno sempre avuto sullo sfondo, in qualche caso direttamente, questo
      problema. Ma il processo di frammentazione sociale e' andato avanti, ogni
      differenza nelle condizioni di partenza sta diventando distanza sociale
      ancora piu' grande. Per ora, questi fenomeni li abbiamo letti con gli
      occhiali che l'esperienza ci ha dato: abbiamo sommato il nuovo al vecchio.
      Anche nel linguaggio che ci hanno imposto: il terzo settore oltre il
      mercato e lo Stato; il socialmente utile oltre il produttivo, l'atipico al
      tipico.
 C'e' ancora uno spazio
      per una pratica sociale del controllo (non piu' solo operaio...?Della vecchia scuola della sinistra sociale torinese, io sono solo un
      "replicante". Continuo a pensare, con il programma dei
      commissari di reparto del 1919, che spetta ai sindacalisti contrattare
      secondo il mercato del lavoro, mentre il compito degli eletti dai
      lavoratori e' il controllo della produzione e del processo di produzione.
      E se Taylor affermava che le funzioni di programmazione non possono stare
      in officina, ho dei dubbi che oggi esse siano rimaste negli uffici. Dove
      stanno oggi quelli che pensano e dove stanno quelli che lavorano ? Senza
      affrontare queste questioni, i diversi diventano in fretta concorrenti. I
      primi scioperi in Italia li hanno fatti i tessitori biellesi che si
      battevano contro l'introduzione nelle manifatture degli apprendisti e dei
      lavoratori forestieri. Le diverse forme e norme che regolano il rapporto
      di lavoro sono cosi' compenetrate che in ogni azienda i contratti sono
      sempre piu' di uno, anzi, molti piu' di uno. Senza contare quelli che non
      stanno dentro le mura di cinta. Ancora una volta non possiamo non studiare
      la organizzazione del lavoro che comporta questa frammentazione, i sistemi
      cooperativi che si stabiliscono, i ruoli e le funzioni nei processi
      lavorativi. Ai delegati ed ai tabelloni di linea ci siamo arrivati
      studiando. Oggi quale e' la linea ? E chi deve rappresentare chi ? E,
      soprattutto, abbiamo concretamente dimostrato che il lavoro dequalificato
      poteva essere portatore cosciente di istanze di cambiamento. Il tabellone
      di linea era l'espressione della battaglia per una democrazia cognitiva
      nei luoghi di lavoro. Emerge qui una questione interessante relativa alla
      formazione ad alla espressione del saper fare. La ristrutturazione sta
      comportando, in generale uno svilimento delle esperienze e delle
      competenze professionali assai vasto, nel taylorismo classico toccava
      essenzialmente gli operai, oggi la Fiat sta consumando senza pensare al
      futuro anche le competenze professionali medio alte ed alte, nel lavoro di
      progettazione come in quello piu' direttamente produttivo e delle imprese
      minori. La possibilita' di difendere la propria professionalita' impone di
      estenderla dall'a'mbito del sapere tecnico, dalla competenza ristretta, ad
      un sapere sociale, di ruolo, ad una competenza professionale allargata.
      Sono ormai troppi i lavoratori che non possono piu' restare senza una
      rappresentanza che parta dalla loro condizione. Il luogo di questa
      rappresentanza ben difficilmente e' la fabbrica o la singola impresa. E la
      forma della aggregazione collettiva ben difficilmente e' esclusivamente
      quella rivendicativa, quella della organizzazione da combattimento, o di
      quel che rimane di questa, di carattere militare da cui le organizzazioni
      del movimento operaio hanno copiato troppo e male. Sempre se, ovviamente,
      l'obiettivo e' controllare il proprio lavoro ed il suo risultato e
      stabilire per questa via, in rapporto con altri, la possibilita' di
      cambiare la propria esistenza per scelta, non per costrizione. Va
      riaperto, quindi, il discorso sulle forme associative.
 I lavori socialiNel secolo della crescita industriale gran parte delle attivita' tese a
      creare e/o migliorare ed accrescere le possibilita' di sviluppo della
      produzione, le ha controllate ed in molti casi le ha svolte lo Stato. Ora
      entrano anch'esse direttamente nel mondo delle merci, fondano il loro
      valore in quanto sono vendute. Perdono cosi' la loro funzione di
      regolatore sociale, forse proprio la definizione di terzo settore e'
      l'espressione della ambiguita' di questa esperienza, e' lavoro
      sottopagato, il piu' delle volte in concorrenza con lavoratori del
      pubblico impiego e contemporaneamente e' attivita' il cui risultato e' di
      elevatissimo valore d'uso. Contemporaneamente puo' essere un lavoro di
      estrema subordinazione - clientelare, piu' che gerarchica oppure un lavoro
      capace di esprimere capacita' professionali e disponibilita' nelle
      relazioni. Un approccio difensivo ci nega l'orizzonte positivo. Se poi il
      movimento operaio volesse portare dentro questa esperienza non solo la
      categoria del dono, ma anche la mutualita', il dono fondato sulla
      reciprocita' tra simili e la volonta' e la capacita' di fare delle cose
      contando sulle proprie forze, si potrebbe guardare ad una societa'
      migliore senza delegare tutto a ristrette elite's di intelligenti e
      volenterosi che dopo un po' pretendono gratitudine e nuove sudditanze. E
      se non e' il terzo settore quello che copre gli spazi lasciati dalla
      ritirata dello stato sociale, la soluzione va ricercata nella famiglia. In
      questo caso il lavoro e' gratuito, ancora piu' conveniente. Va
      incentivato.
 Per una critica alle
      attuali divisioni del lavoro, per un diverso uso del tempoSe la lotta di fabbrica dell'uomo medio tayloriano si proponeva, nelle sue
      esperienze migliori, la critica e la rimessa in discussione della
      divisione del lavoro tra chi pensa e chi lavora e su questo fondava la
      affermazione di un nuovo modo di produrre ed un nuovo modo di modello di
      sviluppo, ora le persone concrete, gli uomini e le donne, devono lottare
      per cambiare il modello di consumo, la gerarchia di valore dei bisogni, e
      ricostruire cosi' una consapevolezza sul senso dei propri lavori. La
      critica a questo modo di produrre, mi pare comporti la necessita' di
      rompere l'attuale divisione tra lavori di produzione e lavori di
      riproduzione ritenendo che solo cosi' sia possibile rispondere anche alla
      tradizionale divisione tayloriana del lavoro che invece di tramontare, si
      e' ormai trasferita alla societa', sino alla politica. Nella nostra di
      vita di produttori, il tempo che la scandiva era contrassegnato dal
      momento in cui dovevano essere acquisite le capacita' ad operare per
      soddisfare dei bisogni, il momento in cui dovevano essere messe in pratica
      ed il tempo in cui andavi a riposo. Le differenze di genere erano, sempre
      teoricamente, una variante non particolarmente importante in tale modello.
      Ora, ritengo, siamo ad un bivio: o la divisione del tempo e la divisione
      del lavoro vengono rimesse in discussione o troveranno concrete
      applicazioni nella frantumazione crescente e nella gerarchizzazione
      crescente dei lavori. Un processo rovesciato alle pari opportunita', ogni
      differenza segna un destino. Il territorio diventa allora, o il luogo
      delle scorrerie o il luogo della ricomposizione e della ridistribuzione, o
      il luogo della sanzione delle differenze o il luogo della solidarieta', o
      il luogo della alienazione o quello della coscienza del singolo che non
      puo' non sapere e del controllo sociale. Ritorna qui questa parola
      astrusa, usata da Dante e poi piu', "indovare". Costruire cioe'
      gli strumenti per potersi riconoscere sul "dove" si sta, dove il
      "dove" non e' solo spaziale.
 
 
          Il
      modello americanoForse sarebbe
      valsa la pena di pensare ad un intervento che focalizzasse l'attenzione
      sul fordismo (o post fordismo o ex fordismo), anche guardando agli Stati
      Uniti , che sono stati la patria del fordismo e una delle patrie del suo
      superamento. Ho visto uno dei documenti distribuiti oggi, targato
      "Fondazione Agnelli". Notando che in questo documento erano
      scritte alcune cose discutibili, ho chiesto come mai era finito nei
      materiali: mi hanno spiegato che la ragione essenziale e' contenuta
      nell'ultimo paragrafo, dove, in sostanza, si dice che la forte
      accelerazione impressa alla deregolamentazione del mercato del lavoro
      statunitense ha creato una piccola serie di problemi indicata nelle parti
      precedenti del testo. Questa affermazione del documento e' poco meno
      ridicola di quella della Chiesa cattolica, che otto anni fa circa ha
      riconosciuto che Galileo aveva ragione. Fondazione Agnelli arriva oggi ad
      ammettere una realta' esistente da almeno 15 anni, cosa che chi si occupa
      di Stati Uniti, di mondo del lavoro e di rapporti sociali sa
      perfettamente. La deregolamentazione del mercato del lavoro negli Stati
      Uniti e' iniziata verso la meta' degli anni '70: dopo la crisi
      petrolifera, quella politico- istituzionale del Watergate, e dopo l'inizio
      della penetrazione delle automobili giapponesi, che nell'arco di 10 anni
      sono passate da una quota di mercato del 3% al 20% per poi arrivare al
      23%. Quindi questa dinamica e' iniziata molti anni fa e, per quanto
      riguarda il mercato del lavoro, piu' precisamente quando Reagan, come
      primo atto da Presidente, distrusse il sindacato dei controllori di volo
      che furono imprigionati e condannati per aver scioperato. E' stato un
      segnale: le societa' di desindacalizzazione che avevano cominciato a
      crescere come funghi nei cinque, sei anni precedenti si sono moltiplicate
      come i replicanti di molti films dell'orrore e, tra il '75 e il '90
      l'opera di desindacalizzazione nel mercato del lavoro statunitense e'
      avvenuta con una brutalita' eccezionale. E non perche' lo Stato non
      interveniva, come dicono alla Fondazione Agnelli, ma perche' lo Stato
      interveniva esattamente nella direzione della desindacalizzazione, cioe'
      della distruzione dei sindacati, passati dal 30% della rappresentanza
      all'interno del mondo industriale all'attuale poco meno del 10%. La
      distruzione della forza organizzata del sindacato e' stata una
      precondizione assoluta di tutti gli altri processi che sono poi stati (in
      parte erano contemporanei) la ristrutturazione, l'introduzione di
      tecnologia, la delocalizzazione delle aziende verso le parti del Sud non
      sindacalizzato oppure verso i paesi piu' poveri del mondo. Che negli Stati
      Uniti non si costruisca piu' un televisore all'interno dei confini e' vero
      da quasi 20 anni. Lo dico per pura igiene mentale: leggete pure questo
      documento, ma non credeteci. ‚Il tasso di disoccupazione e' a livelli
      cosi' bassi da indurre molti a ritenere virtualmente raggiunta una
      situazione di pieno impiegoé (recita il documento della Fondazione
      Agnelli). Bugie: il tasso ufficiale di disoccupazione e' del 5,2%, il
      tasso reale oggi e' almeno del 12% con tutte le possibili, diverse
      distribuzioni a seconda dei gruppi sociali, delle fasce di eta', delle
      caratteristiche etniche e culturali. Naturalmente poi parlano dell'enorme
      numero di posti di lavoro che sono stati creati negli ultimi dieci anni:
      15 milioni. Certo, pero' quanti sono stati i posti distrutti? Almeno 7/8
      milioni. Quali sono le caratteristiche della stragrande maggioranza dei
      nuovi posti di lavoro creati? Sono posti di lavoro nei quali prima di
      tutto non si guadagna nemmeno la meta' di quello che si guadagnava nei
      vecchi posti di lavoro; sono in settori del terziario povero (e non di
      quello avanzato); sono lavori part-time, non coperti dalla
      sindacalizzazione, e sono lavori saltuari. Questo vuol dire che una buona
      parte, circa la meta', di questi posti di lavoro non garantiscono ai loro
      detentori il superamento del livello di poverta'. Quindi quando questa
      gente racconta bugie sulla grande quantita' di posti di lavoro creati
      mente sapendo di mentire. A proposito della micro imprenditorialita' che
      sarebbe nata all'interno di questi nuovi processi di trasformazione del
      mercato del lavoro e dell'economia statunitense: negli anni '70 quando in
      Italia si parlava del "piccolo e' bello", negli Stati Uniti
      c'era una vera e propria campagna a favore di questo slogan e in molti
      casi si prendeva a modello proprio il nostro Paese. Sono effettivamente
      nate molte micro imprese, ma la mortalita' di queste imprese negli ultimi
      dieci anni e' tra il 50% e il 70%. Riferendosi ai salari la Fondazione
      Agnelli sostiene che ‚negli anni '90 almeno il 70% dei salariati ha
      visto il valore reale delle proprie retribuzioni scendere o rimanere
      stagnanteé. Non e' vero: il 100% dei salari di oggi e' inferiore ai
      livelli salariali del 1973. Naturalmente non dicono una parola
      relativamente all'incredibile polarizzazione sociale, che e' stata uno dei
      tratti piu' caratteristici di questa vittoria neoliberista che non e'
      soltanto ortodossia economica, e' oggi ideologia dominante negli Stati
      Uniti. Infatti il 20% dei piu' ricchi negli Stati Uniti e' padrone
      dell'84% della ricchezza famigliare nazionale. Questo significa che al
      restante 80% rimane da spartire il 16% della ricchezza nazionale. Subito
      dopo nel documento si fa riferimento alla riduzione delle dimensioni delle
      imprese, e si sostiene che questo ha trovato ampio spazio sugli organi di
      informazione ‚colpendo in senso negativo l'immaginario collettivo
      americanoé. L'immaginario collettivo non c'entra nulla: gli americani si
      lamentano di quello che non hanno piu' nelle loro tasche. Trattano del
      downsizing (di cui si e' occupato seriamente il Times lo scorso anno)
      sostenendo che, in questi ultimi anni, riguarda essenzialmente i
      cosiddetti colletti bianchi. E' vero, ma riguarda essenzialmente i
      colletti bianchi perche' il processo di piazza pulita dei colletti blu e'
      avvenuto tra la fine degli anni '70 e la meta' degli anni '80, quando si
      e' operata una espulsione dalle fabbriche estremamente brutale. E quando
      dico brutale voglio dire di una violenza da guerra. I dati di Torino sono
      per molti versi confortanti, ma se qualcuno andasse nella Torino degli
      Stati Uniti, Detroit, avrebbe la possibilita' di capire molto rapidamente
      perche' quella citta' e' passata da 1 milione e 600 mila abitanti a 940
      mila: perche' le fabbriche di automobili che erano una quarantina negli
      anni '70 oggi sono sette e interi quartieri operai sono stati
      letteralmente rasi al suolo. Perche' dico questo, oltre al fatto di
      fornire qualche elemento che permetta una lettura in controluce di queste
      bugie? Perche' nel ragionare sul passaggio tra fordismo e post fordismo
      dovremmo abituarci a tenere molto conto (e non lo facciamo adeguatamente)
      di quello che e' successo in realta' dove questi processi sono cominciati
      molto prima che da noi e, prima che da noi, stanno arrivando alla
      conclusione. Il sindacato industriale negli Stati Uniti, ridotto al 20%
      (vorrei che le cose che ho detto all'inizio non fossero interpretate come
      una difesa del sindacato americano, ma un sindacato e' meglio che nessun
      sindacato) si e' finalmente accorto di dover cambiare strategia. Questo e'
      un altro dato interessante. Il rapporto tra fabbrica e territorio (di cui
      si e' parlato oggi) e' l'ultima e la piu' interessante scoperta del
      sindacato statunitense, che essendo stato sempre molto chiuso su se stesso
      non si e' mai posto il problema dell'organizzazione, dell'articolazione di
      questo tipo di rapporto, ma che oggi, arrivato al minimo dei consensi sta
      iniziando a pensarci. L'analisi di quel tipo di realta' dovrebbe servirci
      per avere il senso delle direzioni possibili di alcune delle politiche che
      da tempo hanno iniziato a prendere piede anche in Italia.
   
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