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In questo numero

 

Il ponte della Lombardia  - marzo 2001 n. 60 

 

L'America e il suo doppio

Luciano Guardigli

 

Quei giorni cancellati

Lella Bellina

 

Uranio impoverito: le richieste a Parlamento e Governo

Consorzio Italiano di Solidarieta'

 

Lombardia: uno sviluppo contraddittorio
Giovanna Giorgetti

 

L'Intervento di Sandro Antoniazzi all'Assemblea degli eletti

 

L'intervento di Dario Fo al Consiglio comunale di Milano

 

La vita non ha prezzo

Nicoletta Cazacu

 

Stati generalii: assenti le voci della periferia milanese

Antonio Iosa

 

La destra e l'assalto del mattone

Emanuele Tortoreto

 

Tutti i colori di Porto Alegre

Jose' Luiz Del Roio

 

Dopo Seattle, oltre Porto Alegre

Emilio Molinari

 

Prospettive dell'Unione Europea

Gian Luigi Falabrino

 

Lo "stato dell'Unione"

Amerigo Sallusti

 

La chiesa cattolica e la Carta europea dei diritti fondamentali

"Noi siamo Chiesa-Italia"

 

Ci siamo

Pietro Ingrao

 

1901-2001

Centenario della Fiom di Brescia

Osvaldo Squassina

 

Sul Danubio

Predrag Matvejevic

 

Il Grande quadro antifascista collettivo

Fiorano Rancati

 

"Too much flesh o della liberta' sessuale"

Marcello Moriondo

 

 

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Il ponte 

della Lombardia

 

periodico di commento

critica progetto

 

Editore

Comedit 2000

 

Presidente

Paolo Pinardi

 

Direttore resp.

Luigi Lusenti

 

Redazione

L. Bellina, E. Cavicchini

A. Celadin, A. Corbeletti

G. Falabrino, L. Miani

A. Ripamonti, F. Rancati

 

 

Direzione e Amministr.

Via delle Leghe, 5

20127 Milano

Tel. 02/28.22.415

Fax 02/28.22.423

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Reg. Trib. MI

n. 304 maggio 1992

 

 

L’America e il suo doppio

 

C’e' un’America dell’immaginario che i film della Hollywood mitica continuano a riproporci in questa sorta di eterno presente consentito dal riciclaggio delle tecnologie e un’America dura e minacciosa. Quelli che amano l’America del jazz, del proibizionismo (se ne intendevano perche' con l’alcol, abbiamo poi scoperto, hanno fatto fuori i pellerossa), del cinema, dei musical, del welfare sono quasi sempre di sinistra. Stravedono per F.D. Roosevelt, per “Tempi moderni” e per Hemingway schierato in Spagna dalla parte giusta, anche se poi riletti a distanza di anni spesso i suoi ingenui libri deludono. Pochi sono, a destra, odiati come Roosevelt e Chaplin, mentre  Hemingway si salva per le sue cose peggiori, il machismo della caccia e della corrida. Il disprezzo per le “americanate”, l’irrisione per le villette bianche e per il primo sgangherato capitalismo ancora con gli operai viene proprio da quella destra che vede negli USA di allora il paese che ha sconfitto il nazifascismo pimpante, che sogna ancora. A destra odiano l'America che amiamo e amano quella che a noi fa paura. Cosi', oggi, proprio da destra viene la piu' feroce intolleranza contro chi, anche con tutte le cautele di chi si sente fatto anche della cultura statunitense della prima meta' del Novecento, non approva questo o quell’aspetto di un capitalismo ormai sfrenato; di una corsa irrazionale verso il futuro incontrollabile, senza regole; di una intenzionale manipolazione totale dell’opinione pubblica, di una dittatura della pubblicita' e della propaganda che si impongono al mondo intero come modello. La svolta si e' avuta con la guerra in Corea e nel Vietnam, ed e' una svolta cominciata proprio negli USA dove libri e film e un giornalismo avventuroso hanno per primi denunciato quelle magagne. Alle pellicole che finivano con gli inni della marina e dell’esercito americano degli anni Quaranta e Cinquanta si sono sostituiti i film di critica coraggiosa contro un sistema che andava disumanizzandosi. La deriva tra le preoccupazioni della cultura e la violenza delle multinazionali e della polizia e dell’esercito negli Stati Uniti e' andata via via aumentando e non si vede nessuna possibilita' di un’inversione di tendenza. Pure nelle ultime elezioni: intellettuali e alfabetizzati democratici sconfitti da una destra premiata dalla pena di morte, dal razzismo e dalla paura e su questo modello un mondo sempre piu' diviso anche da noi, tormentati dal dubbio che la democrazia possa creare mostri per noia, per avidita', per fragilita' culturale. Oggi gli Stati Uniti che scopriamo, nonostante tutto con qualche sorpresa, sono quelli un po’ mafiosi della CIA, di Ustica, del Cermis, degli “affari sono affari”. Eppure i segni della prevaricazione c’erano gia' anche nei media: gli applausi a comando, le risate preinstallate nei telefilm, la violenza gratuita dei film negli ultimi trent’anni. Cosi' la prevaricazione commerciale: i cibi transgenici, gli hamburger con le finte strisce per sembrare cotti alla piastra, gli investimenti massicci per comprare possibilmente tutte le sale cinematografiche nei paesi amici, la politica dei best-seller e delle videocassette, la beffa delle nuove tecnologie, centellinate per spremere continuamente quattrini. E le menzogne dei militari che spargono bombe all'uranio, impoverite quanto volete (un campo di battaglia vero non e' pieno di morti, ma e' pieno di autoveicoli e di carri armati distrutti, dalle cui lamiere l’uranio intossica), ma sempre radioattive. Anche perche' non hanno mai avuto una guerra in casa loro e hanno tante scorie nucleari da distruggere. Dispiace, seppur si capisce il motivo, che un giornale come la Stampa, dal quale ci aspettiamo giustamente cultura, anche della vita, e buon senso, si sputtani per questa America che non e' piu' di nessuno, neanche di Agnelli, ma dei suoi capitali e dei suoi generali.

 

 

 

 

 

Prospettive dell’Unione Europea

 

L’analisi pessimistica sulla situazione europea, che Amerigo Sallusti fa in questo numero e' lucida, argomentata e, purtroppo, giustamente pessimista.

Del resto, la maggior parte dei commenti letti subito dopo il Consiglio europeo di Nizza, conferma questo pessimismo. Valga per tutti il parere autorevole, e deluso, di Mario Monti, commissario europeo alla Concorrenza (intervista del “Corriere della Sera”, 14 dicembre 2000). Mentre quasi tutti i commentatori si sono detti delusi dalle prospettive politiche, sottolineando gli aspetti prevalenti del mercato e dell’economia, Monti non e' soddisfatto neppure di questi, e ha detto: “Ma non c’e' solo un bilancio politico negativo. Dal mio punto di vista, credo che Nizza porti notizie non buone anche per la competitivita' dell’economia. Ho sempre pensato che la capacita' e la rapidita' di decisione siano cruciali non solo per le imprese, ma anche per i sistemi-Paese e per i sistemi continentali, come e' ormai quello europeo. E il nuovo trattato non ha certo rafforzato la nostra capacita' di prendere decisioni rapide rifiutando di abolire il diritto di veto. C’e' uno sviluppo istituzionale anchilosato che non giova all’economia europea”.

Ma e' la politica cio' che preoccupa di piu', la politica degli stati nazionali, il “tiro alla fune dei Quindici”, come l’ha definito Franco Venturini, la difesa degli interessi nazionali e degli attuali rapporti di forza (o dei nuovi, per la Germania), almeno fino al 2004, quando ci sara' la nuova conferenza, o al 2005, quando i quattro Grandi (Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia) rinunceranno al  secondo commissario.

Lo scontro fra la Germania e la Francia e' noto: nonostante il compromesso che ha accettato, la Germania ha ottenuto un meccanismo di maggioranza che rispecchia la sua preponderanza demografica ed economica. Ma preoccupa di piu' il successo di Blair, che era andato a Nizza dichiarando che la Gran Bretagna dovra' avere un ruolo che sottolinei la sua funzione di collegamento tra l’Europa e gli Stati Uniti. La Gran Bretagna, che continua a non aderire all’euro, ha ottenuto che la difesa venisse esclusa dalle “cooperazioni rafforzate”.

Non a caso Valentino Parlato (il manifesto, 12 dicembre) ha scritto che a Nizza l’Europa ha fatto un passo indietro: “Neppure gli europeisti piu' appassionati (ma non a caso Delors e' uscito di scena) hanno potuto lanciare uno slogan, un’idea forza mobilitante. Non una grande idea di politica internazionale: che cosa vorra' fare il nuovo soggetto Europa in un mondo sempre piu' globalizzato? E nemmeno un’indicazione su come l’Europa vorrebbe agire nel bilanciamento dei poteri mondiali, rispetto agli Usa e rispetto ai grandi paesi asiatici e a una Russia che non potra' rimanere a lungo in ospedale”.

Figuriamoci, con la Gran Bretagna che fa da sentinella per l’alleato americano. Eppure, un mese dopo, scrivendo di politica militare e della questione delle bombe all’uranio, Sergio Romano concludeva significativamente che l’euro non e' una bandiera, ne' un esercito, ne' una politica.

E ancora Parlato ha notato come da Nizza sia stata assente la societa' dei cittadini: “Il welfare e' stato certamente il miglior prodotto della cultura europea, qualcosa che gli Usa non sono riusciti o non hanno voluto fare. Ma ne' a Nizza ne' altrove c’e' stato qualcuno che abbia lanciato il progetto di un nuovo welfare piu' forte ed universale; corrispondente agli accresciuti bisogni umani che sono l’ordinario prodotto della crescita civile. L’ideologia del mercato e' una droga che ha inaridito i cervelli politici e anche la cultura europea”.

Non a caso, su questa conclusione concordano sia Sallusti sia il documento di “Noi siamo Chiesa”.

Tutto negativo, dunque, e nessuna speranza? Forse no.

Sallusti auspica che le mentalita' evolvano attraverso l’educazione (ma quando si porra' il problema dei libri di storia per le scuole, dove ogni Paese ha tutte le ragioni e gli “altri” sono ancora i “nemici”?); e il documento di “Noi siamo Chiesa”vorrebbe piu' spirito evangelico e minor prevalenza dell’economia.

Anche Mario Monti, piu' pragmaticamente, crede che Nizza abbia lasciato passare due ingredienti positivi: la possibilita' di ricorrere alle “cooperazioni rafforzate” e il maggior potere del presidente della Commissione: “Credo che la Commissione debba agire lungo tre direttrici. In primo luogo esercitare fino in fondo e senza esitazioni tutte le proprie competenze. Paradossalmente il fatto che gli Stati membri abbiano voluto compiere cosi' pochi progressi fa risaltare che ci sono terreni precisi su cui la Commissione ha una competenza piena e indiscussa. Secondo: avviare subito una riflessione sulle cooperazioni rafforzate e sul loro potenziale, identificare in quali campi e con quali Paesi possano essere avviate e prendere iniziative conseguenti. Certo le divergenze trasversali e il tutti contro tutti che abbiamo visto a Nizza non sono premesse incoraggianti per la nascita di un nocciolo duro. Ma si tratta di un terreno sconosciuto, che occorre esplorare. Terzo: dimostrare in modo pragmatico, fin dal prossimo varo del libro bianco sulla governance, la superiorita' del metodo comunitario rispetto a quello intergovernativo”.

 

 

  Il “Grande Quadro Antifascista Collettivo"

 

Il 27 gennaio il “Grande Quadro Antifascista Collettivo” e' stato staccato dalla parete del Museo di Arte Moderna di Strasburgo, dove era esposto dal 23 novembre dello scorso anno, per ritornare nelle cantine di Marsiglia. Continua cosi' il malfermo e incerto destino di un’opera artisticamente e storicamente importante, vista sinora da ben poco pubblico. Ne ripercorriamo qui la storia, anche con l’aiuto di Enrico Baj, che ne fu uno degli autori con Roberto Crippa, Gianni Dova, Antonio Recalcati, Jean-Jacques Lebel e l’islandese Erro.

 

Tutto nacque dentro la mostra “Anti-Proces 3”, inaugurata a Milano il 5 giugno 1961. Il processo a cui si riferisce il titolo, nonostante i riferimenti datigli a posteriori, non aveva nulla di politico, a meno che non si consideri politica la condanna e la conseguente espulsione di alcuni artisti dal movimento surrealista. La  scomunica era stata voluta da Andre' Breton, nume tutelare e rigido custode dell’ortodossia del movimento. Lo scomunicato Jean-Jacques Lebel chiamo' gli artisti “eretici” a partecipare a una mostra collettiva che era anche un happening provocatorio. Alain Jouffroy collaboro' praticamente sino a mettere a disposizione la sua Renault per il trasporto. Le opere esposte erano di autori illustri: Sebastian Matta, Victor Brauner, Jean Tinguely, Robert Rauschemberg, Lucio Fontana e altri. Prima tappa inevitabilmente Parigi a cui segui' Venezia. Correva l’anno 1960 e la Francia era tragicamente dentro la guerra d’Algeria. Cresceva la protesta contro la feroce repressione e l’uso della tortura. Gran parte degli intellettuali di Francia e' mobilitata: testo-simbolo di questa mobilitazione fu il Manifesto dei 121, scritto da Maurice Blanchot e firmato, tra gli altri, da Breton , Sartre, de Beauvoir, Pierre Boulez, Michel Leiris. Anche l’ “Anti-Proce's” condivise e prese parte alla lotta.

Quando si decise di realizzare la terza tappa della mostra a Milano, Jean-Jacques Lebel propose la realizzazione di un quadro collettivo come testimonianza e denuncia. L’opera venne realizzata nello studio di Roberto Crippa: gli autori sopra citati, un po’ insieme, un po’ separatamente lavorarono su una tela di 5 m. x 6m. Il risultato fu un quadro straordinario in cui i diversi stili riuscivano a fondersi, a raggiungere un’omogeneita' che superava ogni sovrapposizione, in cui i colori violenti e le figurazioni scomposte evidenziavano la denuncia e la carica emotiva e, insieme, raggiungevano l’armonia dell’opera d’arte.

“Anti-Proce's 3” apri'  a Milano il 5 giugno 1961 nella Galleria Brera. Il “Grande Quadro Antifascista Collettivo”  comprendeva il testo del Manifesto dei 121, a sottolineare la denuncia che scaturiva evidente dal suo contenuto visuale, dai grotteschi generali, dalle croci uncinate, dalla dilacerante violenza dell’immagine femminile.

Il 14 giugno, alle ore 16, il cancelliere capo del Palazzo di Giustizia di Milano si presento' con un decreto di sequestro per due quadri. Prendiamo dal testo del decreto: “nella sala principale e' esposto un grande pannello denominato (omissis)..al centro dell’opera troneggia una specie di idolo contrassegnato con la scritta “La Morale” e recante in bocca la riproduzione di una classica Madonna con Bambino; e piu' in basso vi figurano le effigia di Sua Santita' Giovanni XXIII e del Cardinale Ottaviani che sono ripetute anche piu' a destra in un settore contrassegnato con la didascalia “La Mort”...che quest’opera oltre che apparire offensiva del decoro e del prestigio di S.S.Giovanni XXIII rappresenta pubblico vilipendio della religione di Stato....” Quindi il quadro venne arrotolato da tre agenti di polizia e portato via.

Visto il plauso dei benpensanti cittadini (vedasi in merito un articolo del settimanale Oggi di quel tempo), il tutto sembra piu' il risultato del moralistico rigore delle nostre autorita' che non il frutto di pressioni diplomatiche francesi come suggerisce “Le Monde” del 23 novembre 2000 (che, in verita', esagera anche nel numero dei poliziotti che indica in 25). Sta di fatto che il quadro fini' nelle cantine di Palazzo di Giustizia, dove rimase nonostante il quasi immediato non luogo a procedere per l’evidente inconsistenza delle accuse, per 25 anni (sic!).

 

E’ Enrico Baj che nel 1986 avvia le complicate pratiche per il dissequestro: il quadro finalmente esce dai sotterranei ma solo per iniziare un viaggio dall’incerto destino. Poiche' nel suo luogo di nascita sembra ancora destare asperita' e diffidenze, il “Grande Quadro Antifascista Collettivo” emigra in Francia. La prima proposta di ospitalita' viene fatta al Centre Georges Pompidou, noto anche come Beabourg, ma non trova positiva accoglienza(1988): il celebre centro lo espone solo brevemente piu' tardi, nel 1996, nella mostra “Face a' .l’histoire” (leggi “Di fronte alla storia”). Nel 1992 Lebel e Baj sono pronti a firmare una donazione ai Musei di Marsiglia, dopo che l’allora direttore dei suddetti musei, Bernard Bliste'ne, si e' dichiarato entusiasta di fornire una sede per l’esposizione permanente della tela. L’improvviso cambiamento del colore politico dell’amministrazione comunale, fino ad allora solido territorio socialista, cambia anche le intenzioni delle dirigenze delle istituzioni culturali. Il progetto quindi si arena e alla citta' rimane comunque l’onore di aver fornito un magazzino dove il quadro puo' essere depositato (ma non visto). Da qui esce solo per esposizioni temporanee: quella gia' citata del Beaubourg e una personale di Jean-Jacques Lebel alla Fondazione Mudima di Milano (1999).

Il 23 novembre 2000 l’opera e' esposta al Museo di Arte Moderna di Strasburgo, dove sembra debba rimanere per sempre. L’esposizione si colloca peraltro in un momento in cui la guerra d’Algeria torna d’attualita' per le rivelazioni (di fatto ammissioni) sull’uso della tortura da parte dei generali  Paul Aussaresses e Jacques Massu, massime autorita' militari francesi in terra d’Algeria nel periodo piu' duro della guerra di indipendenza. Ma le verita' scomode ancora turbano, soprattutto per il ruolo che vi ebbe François Mitterand, e Lionel Jospin rifiuta la commissione parlamentare d’inchiesta. Sta di fatto che anche l’interesse del Museo di Strasburgo si raffredda: forse fra tre anni decidera' di accogliere il quadro. La soluzione non e' soddisfacente per Enrico Baj: il pubblico puo' vedere il “Grande quadro antifascista collettivo” sino al 26 gennaio 2001. Poi il ritorno nel magazzino  di Marsiglia.....

 

Nel frattempo c’e'  anche un vago interessamento del Comune di Milano per creare un luogo permanente per “I funerali dell’anarchico Pinelli” e per la tela di cui abbiamo sin qui parlato. Non c’e' alcun seguito pratico per il momento, se non generiche conferme di un’intenzione.

Enrico Baj ritiene che Milano sia la sede naturale del “Grande Quadro Antifascista Collettivo” perche' qui e' stato concepito e realizzato da artisti per la maggioranza italiani, anche se il luogo dove esporre l’opera non dovesse essere rigorosamente istituzionale. Perche' questo avvenga, per le necessarie pratiche legali, si e' rivolto ad un avvocato parigino. Piu' ancora di questo, ha pero' bisogno di sostegno da parte della pubblica opinione. Noi solidarizziamo attivamente e attendiamo, con curiosita' e ansiosa partecipazione, la fine della storia.