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In questo numero

 

 

Il ponte della Lombardia  - maggio 2000 n. 57 

 

Per non dimenticare

 

ELEZIONI REGIONALI

 

Riflessioni sul dopo voto

Luigi Lusenti

 

Destra reale, sinistra virtuale

Edgardo Bonalumi

 

Un disastro iniziato lontano

Vittorio Agnoletto

 

Un partito nuovo per la sinistra

Emilio Molinari

 

C’e' ancora la sinistra?

Gian Luigi Falabrino

 

Voghera: cronaca di una 

sconfitta annunciata 

Antonio Corbeletti

 

I risultati al Comune di Pavia

Antonia Bottini

 

Laboratorio Campania per il centrosinistra?

Costanzo Ioni

 

Referendari contro tutti

Riccardo Terzi

 

Referendum togati

Francesco Maisto

 

Centri sociali a Milano

Francesco Donzelli

 

L’urbanistica secondo la Regione Lombardia

Emanuele Tortoreto

 

Viaggio nell’immigrazione

Marco Revelli

 

In Kosovo

Paolo Vittone

 

E se invece Hitler...

Erio Franchi

 

Il Sudafrica racconta se stesso

Antonello Nociti

 

IBIS: editori in Como

Fiorano Rancati

 

Costa Pelata: frammenti di una battaglia partigiana

Antonio Corbeletti

 

L'amore al primo binocolo: intervista al poeta  bosniaco Nedim Cisic

Laura Miani

 

******************

 

Il ponte 

della Lombardia

periodico di commento

critica progetto

 

Editore

Comedit 2000

 

Presidente

Paolo Pinardi

 

Direttore resp.

Luigi Lusenti

 

Redazione

L. Bellina, E. Cavicchini

A. Celadin, A. Corbeletti

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A. Ripamonti, F. Rancati

 

 

Direzione e Amministr.

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20127 Milano

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Reg. Trib. MI

n. 304 maggio 1992

 

 

 

 

Un disastro iniziato lontano

 

Credo che il disastro sia iniziato nel 1996, quando, dopo la vittoria, il centro sinistra ha scelto di non costruire una strategia, ma di abbassarsi a gestire l'esistente.

E questo e' stato un primo, macroscopico, errore al quale, in queste ultime elezioni, si sono sommati errori assai piu' banali.

D'Alema ha pagato e si e' dimesso perche' ha voluto trasformare queste elezioni in un referendum tra se stesso e Berlusconi giocato tutto sul piano della politica nazionale.

Dentro quell'impostazione c'era un errore di fondo: come ha potuto, infatti, pensare ad un referendum sul governo, quando in quattordici regioni su quindici lo schieramento che sosteneva il candidato di centro sinistra comprendeva anche forze collocate all’opposizione rispetto al governo nazionale?

Non so come qualcuno, all'opposizione rispetto al governo nazionale, abbia potuto facilmente in Piemonte votare Livia Turco, ministro di quello stesso governo.

Forse e' una cosa su cui riflettere.

Altra questione, relativa alla campagna elettorale. Bisogna smettere di utilizzare il termine “solidarieta'”, e cominciare a parlare di politiche solidali.

Detto questo vorrei capire perche' in Lombardia un centro sinistra che sicuramente non ha, in questi anni, brillato per “solidarieta'”, abbia fatto la campagna elettorale per Martinazzoli sotto lo slogan "un voto per la solidarieta'".

Vorrei capire, anche dal punto di vista della comunicazione di massa, che significato avesse concretamente un manifesto con quello slogan, che politiche concrete proponeva: nulla, parole vuote. Si puo' giocare un messaggio come quello se per cinque anni si sono costruiti riferimenti concreti, per cui chi vede la parola "solidarieta'" capisce cosa significa esattamente.

Ancora: e' vero il ragionamento secondo cui bisognava convincere il proprio popolo ad andare a vota.

Il problema di queste elezioni e' che non si e' capito per cosa andare a votare, per quale modello, per quale idea di societa'.

L'idea di societa' di Berlusconi e' precisa, immediata, palpabile.

Noi non possiamo semplicemente dire che siamo in disaccordo (chi piu', chi meno) con lui e che la sua idea di societa' non ci piace.

Sul piano propositivo non siamo in grado piu' di tanto di dire cosa vogliamo, infatti ci definiamo "sinistra antiliberista", in negativo, non in positivo: questo e' un grande limite, nelle situazioni macro, ma anche nella gestione concreta del quotidiano.

Aggiungo che in questa citta', al di fuori dei luoghi del lavoro dipendente, l'opposizione sociale molte volte e' stata gestita, non solo mediaticamente, da tre o quattro preti.

Non mi stanchero' mai di dirlo: quella e' mediazione sociale, non costruzione del conflitto sociale.

E quando il sindaco Albertini organizza a Milano la convenzione della societa' civile e del volontariato, e dall'altra parte interviene Don Colmegna, si tratta di un prete che riempie un vuoto politico di una sinistra che o non ha nulla da esprimere, oppure non riesce a superare la soglia di visibilita'.

Ma la Chiesa, anche nella sua parte piu' avanzata, svolge il suo ruolo: dopo aver sostenuto alcune cose va a trattare l'assistenza, perche' la Chiesa fa assistenza, salvo rarissime eccezioni.

Non dico sia sbagliato dare da mangiare a chi ha fame. Il problema e' lavorare sulle cause della fame, invece di fare da ammortizzatore sociale.

Sempre sulla campagna elettorale e sull’immagine.

Martinazzoli e' una eccellente persona, ma questo non basta, perche' poi bisogna avere la capacita' di mobilitare, di comunicare anche attraverso immagini messaggi forti e un’idea di societa' che vanno ben oltre il dire “sono una brava persona”.

Ho due grosse questioni da porre schematicamente, da parte di chi lavora nel sociale a chi rappresenta i partiti,.

Dalla sinistra Ds, che dispone del 20% dei consensi interni e che, giustamente, ripropone la centralita' dei partiti voglio sapere: se Amato e' una sciagura, alla fine la sinistra Ds votera' Amato, oppure no?

Il problema e' quello di prendersi responsabilita' storiche altrimenti, scusate il mio mescolare culture, si svolge lo stesso ruolo dei preti di cui parlavo prima: lo specchietto per le allodole.

Per quanto riguarda Rifondazione. Premesso che c'e' stato uno sforzo di apertura, che il risultato di Milano e' buono, pongo a Rifondazione una questione di fondo: sono convinto che ci sia almeno un 10% di elettorato a sinistra del centro sinistra, a sinistra del governo D'Alema, e Rifondazione Comunista, quando e' andata bene, e' arrivata al 5,1%. Vogliamo porci questo problema?

Bruno Casati ha dichiarato "siamo coscienti di essere una parte della sinistra alternativa". Bene, ma da qui, pero', bisogna far partire un ragionamento.

E' vero che c'e' un dato che parte dalla globalizzazione (movimento di Seattle, ecc.).

E' vero che e' in corso un processo di americanizzazione dei movimenti, ed io non sono per questa logica, sono perche' i movimenti sui diritti ritrovino tutta la loro politicita' in una sintesi, altrimenti si diventa settoriali e si perde.

Ma ci sono grossi nodi: sono convinto, ad esempio che buona parte di questo dissenso a sinistra dal centro sinistra e di opposizione non si riconosca nella parola "comunista". Sono convinto che questa area sia antiliberista in modo radicale, rigido, fortissimo, che ponga problemi a questo tipo di globalizzazione, ma anche che non abbia quell'orizzonte ideologico, mentre comunemente, forse, ha un orizzonte ideale; sono convinto che viva la questione del lavoro con modalita' differenti, che pensi di esaurire il proprio ruolo politico nella militanza sociale, sbagliando.

Sono in dissenso su questo con i ragionamenti di Gigi Sullo secondo cui dobbiamo disinteressarci della politica istituzionale per creare la societa' della belle anime: la societa' delle belle anime rischia di portare a governi di destra.

Ma allora, rispetto a Rifondazione, qui si pone una questione di fondo.

Se Rifondazione Comunista pensa di continuare a costruire su se' stessa puo' fare l'opposizione, ma intorno ci sara' o il deserto, o l'americanizzazione dei movimenti, oppure, prima o poi, qualcun altro costruira' un altro pezzo di movimento antiliberista con cui poi dovremo fare i conti.

C’e' un’altra strada: oggi, nel momento in cui ci sono le condizioni favorevoli per farlo, Rifondazione Comunista si apre davvero. Non so dire con quali modalita', ma con la consapevolezza di essere una parzialita' essenziale, forse la parzialita' essenziale; riconoscendo, pero', la propria limitezza anche in termini culturali ed ideologici, e riunendo, attorno a poche idee forti un discorso che non puo' che essere di opposizione ma che sappia andare oltre lo schema, le modalita' con cui oggi Rifondazione Comunista si cimenta, si confronta, si organizza e si autorappresenta (questo e' un problema enorme).

Credo che oggi, paradossalmente, questa possibilita' sia piu' grossa a Milano che da altre parti.

 

(testo non rivisto dall’autore)

 

E se invece Hitler...

Il progetto nazista per  il nord-est Italia

 

E se la Seconda guerra mondiale avesse avuto un esito diverso? Con questa immaginosa ipotesi si sono trastullati politologi, romanzieri e sceneggiatori di varia estrazione, cercando di proporre scenari piu' o meno plausibili. La fantasia umana, si sa, ama il paradosso.

C'e' stato anche in Italia un brillante esercizio letterario di questo genere, riferito pero' ad un altro conflitto: una gustosa parodia della storia, godibilissima grazie alla bravura dello scrittore che per certi versi riesce a farla apparire quasi vera. Con il titolo di "Contropassato prossimo", Guido Morselli aveva raccontato nel 1975 una Prima guerra mondiale che, dopo una serie di colpi di scena, vedeva gli Imperi centrali prevalere alla fine sulle potenze della Triplice Intesa.

A guerra finita, morto Francesco Giuseppe e deposto il Kaiser tedesco, l'Europa si organizzava in una Federazione di stampo socialdemocratico ed avviava una pacifica competizione economica e culturale con la neonata Unione Sovietica.

Ottimi auspici, dunque: sennonche' proprio in quei giorni in una piccola galleria d'arte di Vienna apriva una sua mostra personale uno sconosciuto pittore austriaco, tale Adolf Hitler... e su questo inquietante presagio il libro si chiude. Ma al di la' di consimili "divertissements" letterari qualche prurito di curiosita' potrebbe venir concesso (sempre restando con i piedi in terra, consapevoli che la storia non si fa con i "se") circa i possibili esiti della Seconda guerra mondiale qualora per avventura - o disavventura - le cose fossero andate in altro modo.

Sommamente improbabile pensare ad una vittoria sul campo di Hitler, le cui conseguenze peraltro sarebbero piu' facilmente immaginabili in base ai suoi dichiarati propositi ed ai suoi atti in corso d'opera; si potrebbe invece avanzare un'altra ipotesi, non del tutto peregrina, che, se realizzata avrebbe avuto conseguenze sconvolgenti per l'integrita' territoriale del nostro Paese.

Poniamo il caso che nella fase conclusiva della guerra anche Hitler fosse riuscito ad avere l'arma atomica alla quale i suoi scienziati stavano lavorando; non e' irragionevole supporre che in nome della "Realpolitik" avrebbe potuto ottenere una pace patteggiata fondata sull'equilibrio del terrore, con il riconoscimento ai contendenti di sfere d'influenza politiche basate sulla situazione militare di fatto. E in quella fase (anzi fino agli ultimissimi giorni del conflitto) la situazione nelle regioni nordorientali del nostro Paese era inequivocabile. Dopo la caduta di Mussolini, e piu' ancora dopo l'8 Settembre 1943, la politica nazista nei confronti dell'Italia Si era venuta delineando con tutta chiarezza, facendo fra l'altro riemergere con violenza le antiche e mai sopite brame germaniche (il Drang nach Suden) verso territori gia' appartenuti all'Impero austriaco.

 

Sulle provincie di Bolzano, Trento, Belluno, Udine, Gorizia, Trieste, Pola e Fiume (Zara era gia' definitivamente perduta) era calata sul finire del 1943 la scure del protettorato tedesco, impersonato dai proconsoli hitleriani messi a capo dell'amministrazione civile a sostegno delle truppe occupanti. Le prime tre, insieme con la provincia di Lubiana annessa a forza nel 1941, erano entrate a costituire la Zona di operazioni delle Prealpi (Voralpenland) mentre le provincie giuliane formavano la Zona di operazioni del Litorale Adriatico (Adriatisches Ku'stenland) rette ciascuna da un Commissario supremo (Gauleiter) dotato di vastissimi poteri.

Non era una sistemazione provvisoria dettata dalla situazione militare contingente, anche se i territori erano stati soltanto sottoposti all'amministrazione tedesca e non annessi formalmente al Reich; lo prova in modo lampante un documento dell'epoca, dovuto al dottor Alois Friedrich Rainer, Gauleiter della Carinzia al momento della capitolazione italiana ma di li' a poco Commissario supremo per il Litorale Adriatico. Un accurato studio di Roland Kaltenegger (1), che fa la storia delle operazioni militari condotte dalle truppe tedesche nella regione adriatica durante gli anni 1944/1945, fornisce infatti fra l'altro il testo di un rapporto telegrafico inoltrato da Rainer a Berlino il 9 settembre 1943, di cui si riportano qui alcuni significativi stralci tratti dalla successiva edizione italiana (2).

L'esordio di Rainer e' illuminante:

"La soluzione piu' chiara, nel rispetto del sentimento nazionale italiano, sarebbe il ripristino del confine italo-austriaco del 1914 (...) Un accordo con la Croazia deve includere la restituzione di Susak e il passaggio di Fiume allo stato croato (...). Il restante territorio amministrativo tedesco viene diviso in tre parti come segue:

1. La provincia di Lubiana con circa 400.000 abitanti, tutti sloveni. Suggerirei di riunificare successivamente la Carniola settentrionale, interna e meridionale in un protettorato tedesco.

2. L'ex contea di Gorizia e Gradisca, con circa 300.000 abitanti, e il capoluogo Gorizia, dove vivono all'incirca 100.000 sloveni, 50.000 italiani e 150.000 friulani.

3. L'antica Istria (capoluogo Trieste con circa 500.000 abitanti, dei quali 150.000 circa sono sloveni, 100.000 italiani e il resto Cicci e Morlacchi di lingua serbo-croata.)

E dopo qualche considerazione sulla situazione politico-militare nella zona, cosi' continua: "La successiva organizzazione di questa regione, il ripristino del sangue germanico e tedesco, nonche' la definitiva demarcazione del confine rispetto all'Italia settentrionale andranno considerati nella fase postbellica".

Viene poi precisato che "del Litorale fanno parte anche le isole del Quarnero, Veglia, Cherso e Lussino; neppure in passato esse appartenevano alla Croazia,(3) e' quindi devono restare unite al territorio(...)

Tuttavia ho in mente come condizione finale le marche del Reich costituite dalla Carniola, da Gorizia e dall'Istria.

Per ragioni di completezza ricordo in questo contesto che anche il Friuli non e' suolo del popolo italiano, ma per un numero complessivo di circa 700.000 abitanti 200.000 sono sloveni, l00.000 italiani, mentre i restanti 400.000 sono friulani. Questi sono diversi dagli italiani sia per razza che per lingua, e fanno parte del gruppo dei ladini delle Alpi e dei romanci, che in Svizzera si chiamano grigioni, in Tirolo ladini e in Friuli friulani. La lingua e la coscienza friulana sono intatte."

Fin qui Rainer. Piu' di una cosa balza agli occhi. Anzitutto, la data: e' il 9 settembre 19439e solo da poche ore e' stato annunciato l'armistizio di Cassibile. E' evidente che il piano tedesco era stato messo a punto da tempo, in attesa che un momento critico ne consentisse l'esecuzione immediata. Quanto a Rainer, era gia' "in pectore" il Gauleiter del Litorale Adriatico, e con tale incarico si installera' infatti a Trieste qualche giorno piu' tardi in base ad un ordine del Führer del 10 settembre.

Poi, il quadro etnico. Si ignora da quale fonte Rainer abbia ricavato i suoi dati; l’argomento, come e' noto, e' sempre stato spinosissimo: le cifre che riguardano l’appartenenza etnica, in quei territori mistilingui da secoli, sono state sistematicamente interpretate o forzate in senso opposto dalle parti interessate, soprattutto dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Dalla proverbiale pedanteria germanica era lecito tuttavia aspettarsi qualche riferimento piu' scientifico, a parte la fantasiosa catalogazione che distingue fra italiani e friulani mentre qualifica i croati dell'Istria come "Cicci e Morlacchi".

Infine, il cinico accenno al "rispetto del sentimento nazionale italiano" di cui Rainer pretende di farsi interprete, chissa' in base a quale investitura.

La soluzione finale era comunque chiara: la formazione delle marche del Reich costituite dalla Carniola, da Gorizia e dall'Istria, ossia l'annessione pura e semplice di tutta la Venezia Giulia. Della Tridentina e dell'alto Veneto si sara' occupato con pari diligenza il suo collega Hans Hofer, nominato a sua volta Gauleiter del Voralpenland.

Non risulta che il duce, unico interlocutore italiano del Führer, abbia avuto qualcosa da eccepire su questa incorporazione di otto province italiane nell'impero dell'alleato.

 

Bibliografia

(1) R. Kaltenegger, “Operationszone Adriatisches Kustenland-Der Kampf um Triest, Istrien und Fiume”, 1993 Leopold Stocker Verlag, Graz

(2) “Zona d’operazione Litorale Adriatico - La battaglia per Trieste, l’Istria e Fiume”, Libreria Editrice Goriziana, 1996

(3) Per l'esattezza, l'isola di Veglia (Krk in croato) era stata assegnata alla Jugoslavia alla fine della Prima guerra mondiale.

 

 

Il Sudafrica racconta se stesso

Dagli orrori dell'Apartheid alle speranze di riconciliazione

 

Era il marzo 1960, in una sconosciuta cittadina della zona industriale intorno a Johannesburg. Si teneva una dimostrazione contro l’obbligo per la popolazione nera del lasciapassare per spostarsi da una zona all’altra all’interno del Sudafrica. La polizia aveva improvvisamente aperto il fuoco: sul terreno erano rimasti 69 manifestanti, per lo piu' colpiti alla schiena, mentre tentavano invano di mettersi in salvo. Da quel momento il Sudafrica venne travolto da una guerra civile e razziale tra le piu' spietate che la storia ricordi.

Per trent’anni si sono combattuti, da una parte, i Governi del National Party, a sostegno della politica dell’apartheid, e, dall’altra, i movimenti di liberazione, guidati dall’African National Congress e dal Pan Africanist Congress. Solo negli anni ‘90 si sarebbe finalmente giunti prima al negoziato tra le parti e poi alle prime libere elezioni, a cui avrebbero partecipato tutti i cittadini sudafricani, a prescindere dal colore della pelle. Nel 1994, dopo quasi trent’anni di carcere, sarebbe stato eletto alla Presidenza della Repubblica il leader storico dell’opposizione, Nelson Rolihlahla Mandela.

L’opinione pubblica internazionale per decenni ha seguito con interesse e commozione le vicende sudafricane. Era impossibile infatti restare neutrali: la contrapposizione tra l’ideologia dei boeri, centrata sul concetto della superiorita' razziale dei bianchi e sulla necessita' di uno sviluppo e di istituzioni separate a seconda della razza e del colore, e la spinta antirazzista e anticolonialista che percorreva l’insieme dei paesi ex-coloniali, non poteva essere piu' netta e radicale. Appariva impossibile qualsiasi altra soluzione che non fosse la totale vittoria di una delle due parti e la piena disfatta dell’altra. Ma non e' stato cosi'.

Intorno alla fine degli anni ’80 si sono avviati dei negoziati, prima cauti e diffidenti, poi sempre piu' determinati nella ricerca di una soluzione che chiudesse con quel tragico passato di violenze. Si e' aperta cosi' la fase storica del nuovo Sudafrica, non piu' quello del conflitto razziale, ma della tolleranza e del dialogo tra diversi: dal Sudafrica dell’apartheid al Sudafrica delle molte razze e culture, il Rainbow Country, la Nazione Arcobaleno, auspicata dal premio Nobel per la pace, l’Arcivescovo della Chiesa Anglicana sudafricana, Desmond Tutu.

La transizione implicava un passaggio molto delicato e insidioso: come regolarsi nei riguardi dei responsabili di crimini e di violazioni dei diritti umani commessi nel corso del lungo conflitto? Quale forma di risarcimento garantire alle migliaia di vittime? Piu' in generale, come trovare una soluzione che aiutasse l’intero paese a “guarire dall’odio”?

La Truth and Reconciliation Commission (TRC), la Commissione per la Verita' e la Riconciliazione e' stata istituita dal nuovo Parlamento eletto nel ’94, con l’intento di mirare “piu' alla comprensione che alla vendetta, piu' alla riparazione che alla rivalsa, piu' allo spirito della comprensione che all’accanimento reciproco”. I sudafricani, a qualsiasi etnia e cultura appartenessero, dovevano fare i conti con il loro passato: c’era chi sosteneva la sbrigativa soluzione dell’amnistia generalizzata per mettere una “pietra definitiva sopra il passato” ed evitare cosi', con la rimozione, di fare affiorare la tragica verita' dei fatti.

Altri consideravano come praticabile soltanto la via piu' tradizionale della “giustizia dei vincitori sui vinti”, anche se, nella realta' sudafricana, si era giunti sul piano militare a una condizione di stallo, che imponeva alle due parti o la via della trattativa o quella di un ulteriore inasprimento del conflitto che avrebbe fatto precipitare l’intero paese in una crisi irreversibile.

“Il passato si rifiuta di starsene tranquillo: ha l’insolita abitudine di ritornare per perseguitarci”, ha scritto il reverendo Tutu nella presentazione dei Rapporti Conclusivi della Commissione. La nuova classe dirigente sudafricana era consapevole di questo terribile pericolo. Se le vittime non avessero potuto in nessun modo raccontare la loro sofferenza, ricordando le sevizie subite, la scomparsa dei parenti, i massacri di giovani armati di pietre e bastoni, quale storia si sarebbe insegnata alle nuove generazioni? L’oblio collettivo avrebbe prima o poi fatto riemergere i mostri del passato. Si e' scelta percio' non la strada dell’amnistia generalizzata, ma quella dell’amnistia individuale, purche' vi fosse una piena confessione dei crimini personalmente commessi e la loro motivazione fosse politica. Come ha scritto il Presidente stesso della Commissione, Desmond Tutu, “la liberta' e' stata concessa in cambio della verita'”.

Non solo. Spesso, nel corso della storia, i tribunali sui crimini di guerra si sono tenuti a porte chiuse: al pubblico e' giunta solo una pallida eco dell’orrore di cui si discuteva all’interno. Alle sedute della TRC hanno partecipato al contrario migliaia di cittadini comuni, di tutte le eta', di tutte le razze. E hanno potuto ascoltare dalla viva voce dei responsabili la verita' su chi ha ucciso il grande leader nero Steve Biko, massacrato di botte da cinque funzionari di polizia, solo perche' aveva preteso di sedersi durante un interrogatorio, senza attendere il permesso di chi lo interrogava. La radio e la televisione sudafricana hanno portato nelle case dei piu' sperduti luoghi dell’immenso territorio, le atroci testimonianze degli ufficiali della polizia politica, responsabili di avere inflitto torture al leader diciottenne degli studenti neri di Cape Town, Siphiwo Mtinkhulu, poi di averlo distrutto nel fisico con un veleno per topi mentre era loro prigioniero, di averlo quindi ucciso con un colpo di pistola alla tempia, di averne bruciato il cadavere su un mucchio di legna ai margini della boscaglia e infine di averne disperso le ossa e le ceneri affinche' nessuno dei suoi parenti o dei suoi amici potesse mai piu' chiedere giustizia per la sua scomparsa.

La ricerca della verita' sul passato, per essere autentica e credibile, non poteva limitarsi solo alla violenza della minoranza favorevole all’apartheid contro chi l’aveva avversata: doveva portare alla luce il morbo dell’odio che aveva contagiato intere generazioni in primo luogo di giovani, sia bianchi sia neri. In una seduta affollatissima della Commissione, si sono ascoltate le voci smorzate dall’emozione di alcuni studenti neri che, dopo aver combattuto a sassaiole contro le autoblindo della polizia, avevano prima abbattuto a colpi di pietra e infine sgozzato una loro giovane coetanea bianca. La ragazzina si chiamava Amy Biehl, e non era sudafricana. Dal Canada, dove risiedeva, si era recata in Sudafrica per studiare i movimenti di liberazione, di cui era simpatizzante. Alla fine della seduta, i genitori hanno chiesto la parola. Non hanno avuto parole di condanna nei confronti degli studenti responsabili della morte della figlia: essi erano il frutto intossicato di una storia di astio e di brutalita', per combattere la quale Amy non aveva esitato a lasciare la vita tranquilla della sua universita' canadese. Avrebbero voluto che il suo sacrificio venisse ricordato da tutti coloro che si erano affrontati con tanta ferocia, e percio' dichiaravano in quel momento di creare la Fondazione Amy Biehl, per rendere vivi gli ideali di reciproca comprensione e di dialogo per i quali la figlia aveva perso la vita a soli diciott’anni.

I lavori della TRC e le sue conclusioni, ovviamente, non hanno accontentato tutti. Molti dirigenti del National Party hanno accusato la Commissione di faziosita' e soprattutto di aver riaperto antiche ferite che soltanto il tempo e la dimenticanza avrebbero potuto medicare. La verita' a poco a poco emergeva, e all’inizio non poteva che provocare nuove fratture. E’ stato senz’altro sconvolgente, per l’insieme della comunita' bianca, scoprire che i suoi “ragazzi” non erano stati affatto quegli esempi di virtu' che avevano fatto credere di essere. Ma era pensabile un’altra via verso la riconciliazione che non passasse attraverso la piu' dura verita'? Ed era sufficiente addossare la colpa dei delitti piu' crudeli, come le torture sistematiche e gli omicidi degli oppositori, sugli esecutori materiali, accettando la comoda versione dei piu' alti dirigenti politici di essere stati ogni volta fraintesi? Un ufficiale ha dichiarato davanti alla Commissione: “L’ordine non era mai esplicito. Ci dicevano di fare un piano su qualcuno. Il significato, per noi della Security, era inequivocabile. Dovevamo farlo fuori a tutti i costi. Adesso dicono che gli assassini siamo soltanto noi”

Dalla parte opposta, numerosi militanti dell’ANC o del PAC rifiutavano di essere posti sullo stesso piano dei loro avversari. Essi si erano battuti per una “giusta guerra”, mentre i loro nemici avevano difeso la causa dell’oppressione e del razzismo, a piu' riprese condannati dalle stesse Nazioni Unite. La Commissione ha riconosciuto l’alta motivazione morale dei combattenti contro l’apartheid, ma ha anche precisato “che chi si trova su un piano morale superiore, non ha per cio' stesso carta bianca sui metodi di lotta che utilizza”.

Le diffidenze e le resistenze sono state passo dopo passo superate. All’inizio, di fronte alle prime terribili testimonianze delle vittime e alle confessioni dei responsabili di crimini, la sconvolgente potenza della verita' e' stata cosi' abbagliante da suscitare una reazione di angoscia paralizzante nell’intero paese. Poi si e' compreso che la lunga e difficile strada della riconciliazione nazionale non poteva non attraversare l’inferno delle pene inflitte e di quelle subite. Molti sudafricani, neri, bianchi, coloured hanno voluto capire non soltanto cosa fosse accaduto, ma perche' e in quale modo si fosse potuti giungere fino all’abisso di disumanita' in cui stavano insieme precipitando. Al di la' della brutalita' dei fatti, e' affiorata allora la verita' sulla cultura dell’odio e del disprezzo che li avevano resi possibili. Il capo di una cellula terroristica dell’estrema destra nazional-socialista, ha riconosciuto che la ideologia che aveva respirato fin da bambino in famiglia lo aveva portato a considerare i neri degli esseri a tal punto inferiori, che non avrebbe mai pensato di poter diventare amico di alcuni di loro, come gli era successo dopo averli conosciuti in carcere. Un nero accusato di aver massacrato a colpi di machete decine di persone, solo perche' appartenenti a un’etnia diversa dalla sua, e che ha ammesso di non aver distinto tra adulti e ragazzi, in quanto “i serpenti generano solo serpenti”, ha spiegato quanto fosse satura di rabbia e ferocia la esistenza quotidiana in uno dei tanti ghetti per africani: “Non era piu' una vita da uomini quella di allora. Uno spirito si era impossessato di noi. Se devo nominarlo oggi, lo chiamerei lo spirito del demonio.”

Un colonnello ha dichiarato con disarmante sincerita' di aver potuto torturare e far assassinare gli avversari neri, perche' non riusciva a credere che “anch’essi potessero davvero soffrire come noi.” Alla fine della seduta dedicata alla sua richiesta di amnistia, la madre di una delle sue vittime ha detto: “Spero che oggi il colonnello Van V. si sia finalmente reso conto che anche i babbuini provano dolore”.

Nelson Mandela ha scritto: “Nei lunghi anni di solitudine in carcere, la sete di liberta' per la mia gente e' diventata sete di liberta' per tutto il popolo, bianco o nero che sia. Sapevo che l’oppressore era schiavo quanto l’oppresso, perche' chi priva gli altri della liberta' e' prigioniero dell’odio, e' chiuso dietro le sbarre del pregiudizio e della ristrettezza mentale. L’oppressore e l’oppresso sono entrambi derubati della loro umanita'. Da quando sono uscito dal carcere, e' stata questa la mia missione. Affrancare gli oppressi e gli oppressori”. (Lungo cammino verso la liberta'. Pag. 578. Nelson Mandela, Ed. Feltrinelli). La prigionia dell’odio ha generato e generera' senza tregua orrori: la eccezionale esperienza della TRC e' che contro di essa talvolta si puo' combattere e vincere.

 

 

Costa Pelata: frammenti di una battaglia partigiana

 

E’ ancora buio pesto quando li hanno svegliati. L’allarme sulla puntata dei tedeschi e dei fascisti e' arrivato prima di mezzanotte: l’indicazione e' di contrastarli verso Costa dei Cavalieri.

Non c’e' niente di caldo da mettere nello stomaco, bisogna solo coprirsi alla meglio e uscire. La cascina di Ponticelli, una piccola frazione poco sopra Godiasco, viene lasciata in fretta.

Fuori, nonostante le stelle a volonta', tira un vento freddo che ricorda l’inverno.

Gia', l’inverno. Quasi tre mesi di stenti e sofferenze, pidocchi e poco cibo. In abbondanza solo neve e ancora neve, anche oltre un metro e mezzo.

Sotto l’urto del tremendo rastrellamento le formazioni si erano ridotte di molti effettivi. Sia per le indicazioni dei comandi che consigliavano il rientro nelle citta' per non offrire il grosso dei reparti alla distruzione (una scelta certo non semplice e non attuabile da molti) vuoi per le perdite subite. Per chi era rimasto erano stati i giorni delle “tane di volpe”, delle buche scavate per nascondersi di giorno dai tedeschi e dai repubblichini uscendo di notte per non rimanere paralizzati dal freddo e dalla fame. In quel periodo i contadini non avevano mancato di far sentire il loro appoggio in tanti modi, arrivando a cancellare le tracce sulla neve per evitare di far scoprire quei ragazzi rintanati nei posti piu' incredibili, anche se con molta piu' paura e preoccupazione di prima. La primavera che si avvicina sembra lasciarsi alle spalle tutto questo. Ma la guerra non e' di certo finita.

 

Il rastrellamento invernale inizia il 23 novembre 1944. E’ condotto da reparti fascisti di bersaglieri della “Littorio” e della “Monterosa” ed ingenti forze tedesche, due divisioni, compresa la 64a divisione Turkestan composta da ex prigionieri di guerra sovietici di origine asiatica come ghirghisi e calmucchi - saranno denominati “mongoli” dagli abitanti delle zone colpite - ai quali viene concessa carta bianca nei saccheggi e contro la popolazione civile. L’attacco parte dal Pavese e dal Piacentino, raggiunge velocemente Varzi (liberata dai partigiani nel settembre con l’istituzione di una Giunta Popolare Comunale) e Bobbio, per concludersi a meta' dicembre. Per settimane gli scontri si susseguono. Solo la formazione garibaldina “Capettini”, composta da molti elementi del luogo, rimarra' in alta Valle Staffora e Valle Curone. Per l’intero mese di gennaio il rastrellamento continuera' come una vera e propria “caccia all’uomo”. I partigiani si sottraggono alla distruzione: si sfiancano in marce forzate per passare attraverso le file nemiche, scompaiono nei boschi e nei cimiteri isolati, si nascondono nelle buche. Molti sono gli scontri isolati, tanti i partigiani caduti nella neve per cercare di contrastare la morsa dei brigatisti neri e dei tedeschi.

I segnali di ripresa del movimento partigiano si evidenziano a partire da febbraio con la battaglia dell’Ortaiolo o Ceneri. In pratica i partigiani dimostrano di essere in grado di colpire il nemico anche dopo un ripiegamento, non piu' il colpire e sganciarsi del primo periodo. Per questo i nazifascisti scelgono di impegnare forze e mezzi per rioccupare il territorio collinare. Costa Pelata, con il successo delle forze partigiane, segna il crollo di questo disegno.

 

Hanno preso posizione. Da qualche ora sono li', fermi dentro uno spelacchiato boschetto, proprio sotto quella costa che tutti chiamano Pelata, vuoi perche' battuta dal vento o forse per via di quell’unica, esile pianta alla sommita'. Sono ormai le sette e il cielo si e' aperto mostrando un azzurro intenso. E’ allora che Milan e' andato su, quatto quatto, per sporgersi oltre il pendio e vedere cosa succede in direzione della pianura, Fortunago e Casteggio in primo luogo.

L’imprecazione in dialetto e' uscita nitida: ridiscende veloce sull’erba e lancia l’allarme. “Arrivano, sono li sotto, i mongoli…”.

Cosi' sono chiamati in Oltrepo.

Sono diventati tristemente famosi durante tutto il rastrellamento per la loro ferocia contro gli abitanti, per le loro selvagge violenze contro le donne. Milan li ha visti salire a ventaglio, in formazione da rastrellamento. Sono guidati da ufficiali tedeschi che, a colpi di fischietto, li manovrano. Avanzano lentamente, non conoscono la consistenza dello schieramento partigiano. In realta' il distaccamento della Casotti e' composto da pochi uomini, non piu' di una quindicina, con armamento leggero. C’e' soltanto il fucile mitragliatore Bren di Sole a garantire una maggiore potenza di fuoco.

Ma l’allarme per il nemico che avanza di fronte si somma all’improvviso per un nuovo pericolo che arriva alle spalle.

Dalla strada che porta a Zavattarello sono comparsi infatti i primi fascisti ed e' subito un rapido scambio di colpi. Sono della brigata nera “Spiotta” di Chiavari.

Non sembrano pero' molto determinati o forse i loro comandanti sono indecisi non riuscendo bene a capire che situazione si sta determinando. Anche loro temono di essere colti alle spalle da altri partigiani, non hanno una valutazione chiara dei rapporti di forza. Si bloccano. Alzano una bandiera bianca e chiedono di parlamentare. Il capitano incontra Tino e lo saluta romanamente, ha in risposta un saluto militare dal commissario del distaccamento. Breve scambio di frasi. In realta' i fascisti vogliono prendere tempo – aspettano rinforzi e approfittando della tregua si spostano a lato delle posizioni partigiane per ricongiungersi con i tedeschi. Una classica manovra a tenaglia che apre il combattimento.

 

I mesi di febbraio e marzo 1945 sono fondamentali per la riorganizzazione delle fila partigiane. Non solo dal punto di vista militare ma anche politico. Il 27 febbraio a Zavattarello, una riunione promossa dal comando partigiano della VI zona, vede la nascita di un comando unico di coordinamento di tutte le forze operanti nell’Oltrepo (e' il Settore Operativo Oltrepo Pavese). A guidarlo e' Americano (Domenico Mezzadra, che e' rimasto alla testa dei garibaldini nei giorni duri del rastrellamento), suoi vice sono il giellista Gianni (Pietro Ridella) ed il comandante garibaldino Maino (Luchino dal Verme). A capo di stato maggiore e' indicato Paolo (Paolo Murialdi).

L’accordo sara' successivamente perfezionato ai primi di aprile e portera' alla costituzione di un Comando Zona Militare Oltrepo, conforme alle direttive del Comando Generale del Corpo Volontari della Liberta'.

 

Costa Pelata e' una battaglia che si spezza in una serie di scontri intensi, che mutano continuamente di posizione. Per tutta la giornata la collinetta viene persa e ripresa dai partigiani. Quattro volte di salite e discese per quel costone tra le pallottole che fischiano, con attacchi a colpi di bombe a mano, gli uomini che si fronteggiano da vicino…

Ed in mezzo a tanta tensione, paura e fatica c’e' anche bisogno di mangiare. Cosi' nel pieno degli scontri ci pensa Maino: porta del pane, uova sode e due fiaschi di vino. Sono offerti dai contadini. Quel povero cibo da spartire in troppi aiuta il cuore, forse, ancor di piu' dello stomaco perennemente vuoto. Testimonia, ancora una volta, l’appoggio concreto di chi sa bene che il successo della puntata nazifascista sarebbe una ulteriore pagina di lutti e sofferenze per tutti.

 

Nella cascina ci sono donne e bambini.

Non si sono accorti di niente, troppo intenti a capire da dove arrivano gli spari e le grida. I traccianti incendiano la stalla. Piemonte e Giacomo scendono di corsa ad avvertire gli abitanti e ad aiutarli a spegnere le fiamme. Gli animali vengono fatti uscire - 2 o 3 mucche, alcune capre e un cavallo - mentre una o forse due mitragliatrici tedesche proseguono il loro tiro.

Due contadini, Giovanni Antonielli e Giuseppe Bonelli, cadranno colpiti quasi al termine dello scontro.

Arrivano anche gli aerei. Probabilmente inglesi. Due caccia bombardieri che scendono in picchiata, provocando anche preoccupazione tra i partigiani, vista la mobilita' delle posizioni. L’effetto positivo e' determinato piu' dalla loro presenza – che lascia sgomenti i rastrellatori – che non dall’efficacia delle raffiche che incidono il terreno attorno alla Costa.

 

Nella continua riconquista e abbandono di posizioni Piemonte e Giacomo incappano in tre brigatisti neri. Faccia a faccia si ritrovano con le armi puntate. Piu' giovani dei partigiani, infagottati nelle divise dimostrano meno di diciotto anni. Pochi attimi e lasciano cadere i mitra. Si buttano in ginocchio, sono spaventati, cosa fare? Un rapido sguardo tra i due. Qualche esitazione. Poi “Via, via, andatevene…e non fatevi piu' vedere”. L’ordine e' raccolto al volo e i tre giovanissimi fascisti, abbandonato l’equipaggiamento, se la danno a gambe.

Non e' cosi' per tutti. Piovono colpi improvvisi e rabbiosi. Non e' chiara la direzione. Ma Giorgio, un deciso contadino che conosce quei posti come le sue tasche, ha una intuizione e si avvicina deciso verso il condotto di cemento lanciando un sonoro “Ve' fora Bobi…”. Per il fascista che ha continuato a sparare di nascosto – un quarantenne dall’accento toscano, ben consapevole della scelta fatta, e' l’ora di saldare i debiti.

E’ il tardo pomeriggio, quando “…dopo due giorni di lotta il nemico stanco, demoralizzato, duramente provato, rientrava in disordine alle sue basi senza avere realizzato alcuno degli obiettivi prefissi…le nostre formazioni garibaldine hanno durante il combattimento ricevuto il cameratesco ed entusiastico appoggio delle formazioni Giustizia e Liberta'…”. Cosi' la sintesi di Toni in un rapporto del CVL terza divisione Lombardia “Aliotta” di qualche giorno successivo allo scontro.

 

Ai piedi della Costa e' rimasta una piccola stele, porta i nomi dei due contadini uccisi e di altri partigiani caduti nei pressi o in altri scontri.

Ogni anno i protagonisti di quei giorni si ritrovano – senza dubbio piu' lenti e impacciati di quando correvano su quella china, si chiamano per nome, riallacciano ricordi e ravvivano vecchie polemiche - per ricordare quella “…battaglia decisiva per la storia delle nostre montagne” come sta scritto sul cippo corroso dalle stagioni.

 Il tempo che scorre e' oggi l’avversario, forse, piu' pericoloso.

Offre una sponda a chi vuole rimuovere, tentare di cancellare, rivisitare, negare valore e verita' alla memoria…ma come scrisse un partigiano “..se dunque piu' dei malanni o della morte ci pesa l’ipocrisia dominante, oh non temete. Questo abbiamo fatto e questo restera' luminoso come il sole sulle foglie del monte”.

Gli uomini e le donne che si riuniscono ogni marzo in quella curva della strada, incrociando gli sguardi interrogativi dei gitanti domenicali o dei ciclisti frettolosi, ne sono ancora convinti.

 

Breve bibliografia

 

-  Barioli – A. Casati – M. Cassinelli “Storia della resistenza in provincia di Pavia” Pavia 1959

 

- L. Ceva “Una battaglia partigiana” Quaderni del M.L.I. 1966

 

- C. Ferrario – F. Lanchester (a cura di) “Oltrepo partigiano” Pavia 1973

 

P. Lombardi “I CLN e la ripresa della vita democratica a Pavia” Pavia 1983

 

- U. Scagni “La Resistenza e i suoi caduti tra il Lesima e il Po” Varzi 1995

 

- U. Scagni “Il comandante Americano e la resistenza garibaldina in Oltrepo pavese -Varzi 1998