Pubblichiamo l'intervento di Pietro Ingrao alla presentazione romana del libro "Ci siamo! Operai, impiegati, precari nella nuova economia" di Maurizio Zipponi.

Si tratta di una riflessione puntuale sulle questioni inerenti alla trasformazione del mondo del lavoro e, soprattutto, ad una delle questioni più rilevanti di questa fase: il tempo.

(testo non rivisto dall'autore)

In occasione della presentazione del libro alla Camera del lavoro di Milano, gli interventi di:

Mario Agostinelli

Rossana Rossanda

Cesare Salvi

Maurizio Zipponi

 

 

Il 

Pietro Ingrao  

 

Uno dei pregi di questo libro è che, con una scrittura asciutta e limpida e con grande forza comunicativa, pone questioni enormi, che partono dalla riflessione sulla crisi di quel soggetto collettivo che ha trascinato e orientato tanti di noi, dentro le battaglie di questo secolo.

Zipponi segnala con molta forza quella mutazione che chiamiamo per comodità post fordista, indica i saperi con cui dalla sponda del capitale questa mutazione è stata messa in campo; e coglie il nuovo approdo, che non appartiene più al mondo della fantascienza, ma comincia ad essere qualcosa di reale, con cui dobbiamo misurarci: parlo della dilatazione del macchinismo, della macchina che, correndo, si spinge, o viene spinta, sempre più a sostituire l’uomo. E’ questa, al fondo, la grande questione del Novecento.

E dobbiamo riconoscere  che, su questa base, nel giro degli ultimi venticinque anni l’avversario, il capitale, ha spostato e rimodellato quel panorama sociale, già sconvolgente, che si era prodotto all’inizio  del secolo e che abbiamo simboleggiato con l’impresa fordista. Ci abbiamo messo molto per capirlo e per leggere il cammino del fordismo che, rimodulando la vita di questo paese, nel suo rivoluzionamento aggregava e in qualche modo unificava il soggetto lavorativo, la massa dei lavoratori, la quale, per dirla con un’immagine, conosceva così somiglianze e concentrazione. Ma è stato questo il punto di leva per le battaglie che sono venute.

Oggi ci troviamo di fronte ad una mutazione che sconvolge questo sistema di aggregazione e tende a frantumare e ridislocare, secondo la sua logica, la grande massa della forza lavoro, dei lavori salariati .

Qui sta la grandezza e la drammaticità dell’evento, e qui sta anche la  nostra sconfitta.

Sconfitta che, non lo possiamo dimenticare, noi, la sinistra, abbiamo subito proprio sul tema che più avevamo fatto nostro, quello del lavoro salariato.

Non sono sicuro che noi, intendo in questo caso la sinistra sindacale, abbiamo sottolineato con abbastanza forza la drammaticità di questo evento, prodottosi alla fine del secolo, evento che ha portato il rapporto fra capitale e soggetto lavorativo a manifestarsi in forme cariche di una formidabile capacità di inclusione.

La dimensione assunta da questo processo ci richiama adesso a riportare il nostro discorso e la nostra riflessione al grande tema del ruolo dello Stato, o meglio del ruolo di ciò che è pubblico; e a seguire con grande attenzione le novità che si manifestano nei processi in corso

A Nizza i sindacati erano presenti in massa e anche la stampa borghese ha colto la radicalità dell’evento. Dopo Maastricht, per la seconda volta, vediamo così riemergere e ridisegnarsi scenari, forme ed attori di una soggettività  e di un agire politico.

Ho sempre provato diffidenza rispetto alla teoria, che ha avuto grande seguito, della “scomparsa della politica”.  In realtà mi sembra che ci troviamo di fronte alla riconferma impressionante di un agire politico: senza accorgercene abbiamo discusso di una carta costituente dell’Europa e dei fondamenti costitutivi di una dimensione sovranazionale. Non so come andrà a finire, ma a a Nizza abbiamo assistito ad una articolazione di storie e rappresentanze nazionali. E non è poca cosa vedere riemergere entità nazionali in questo quadro chiaramente europeo e sovrannazionale;  e sentire che parole come Francia, Germania, Italia, apparentemente superate, sono tornate  a confermare, quale soggetto politico,  lo stato nazionale.

Per tornare alla questione centrale, ci troviamo quindi di fronte, dopo quella fordista,  ad una seconda rivoluzione e al rapido innesto della mutazione politica nei processi sociali  e nella stessa questione sociale.

Su questo terreno incontriamo naturalmente la forza penetrante dell’avversario, ma anche le contraddizioni drammatiche che è venuto sollevando.

E che riguardano l’invenzione dei nuovi saperi (che dobbiamo cercare di classificare bene)  e, insieme,  l’attacco, non solo alla dimensione lavorativa ed alla forza lavoro, ma alla vita e all’esistere, ossia il dilatarsi dell’iniziativa capitalistica all’insieme del processo vitale.

Nel libro c’è, non a caso, un forte ancoraggio al tema del tempo, inteso non solo come quantità di ore libere, cioè come confronto tra ore di lavoro  e ore di non lavoro, ma come attenzione ai  momenti feriti della vita.

Da questa riflessione prende avvio il ragionamento intorno agli infortuni sul lavoro, e, di fronte a quei dati impressionanti, sorge spontanea una considerazione: ma come, la mutazione che ci ha messi in ginocchio, che ha ridisegnato il mondo, che ha prodotto saperi, alla fine approda a questo?  Sono così sapienti e così incapaci di  garantire la vita, la salute, la sicurezza  in senso materiale?

A ben vedere, nell’epoca dei saperi il tema degli infortuni sul lavoro sembra rimandare all’inizio del secolo o prima ancora, all’ottocento. Si tratta di un segnale sconvolgente e ci dice che i momenti della vita feriti dalla radicale mutazione, non stanno solo dentro la fabbrica, ma escono dai suoi confini.

Zipponi, cogliendo questo tema,  argomenta una risposta del lavoratore, del proletario: “il mio tempo non ti appartiene”.

.Di fronte ad una velocizzazione su scala mondiale, alla dilatazione del momento produttivo nelle altre sfere della vita, ad una mutazione a livello globale della misura e della caratteristica del tempo, ecco  riemergere  la grande questione dell’uso e dei contenuti del tempo

Da questo ragionamento dovrebbe scaturire, nuovamente  e con forza, la rivendicazione di una  riduzione dell'orario di lavoro: ma non saremo in grado di dare risposte positive alle questioni del tempo ed alle sue implicazioni, se ci limiteremo ad una lettura chiusamente economica dell’atto lavorativo, e quindi a una riflessione puramente quantitativa sull’orario. Bisogna invece dilatare il discorso sul tempo di lavoro, ma anche, e di più, sul tempo di vita

Viviamo, è vero, in un'epoca di oscuramento della questione lavorativa, ma allora dobbiamo porci alcune domande. Fino a dove, questo oscuramento si spinge? Fino a toccare le condizioni di vita. Che confini ha il conflitto sul tempo? Non è solo riposo, è di più;  è tutto ciò che sta dentro la sfera del "non lavoro", e che aveva trovato nel corso della civiltà umana scansioni e sanzioni, che venivano da una spinta religiosa: la questione della domenica, del giorno del non lavoro, che non era tempo  vuoto ed assenza, ma era il giorno del “sacro”. Non sono credente, ma mi appare chiaro quale valore assumesse, allora, il momento del riposo rispetto a quello del lavoro, e come il mondo del lavoro si trovasse poi ad incontrarsi con un mondo di non lavoro, che non era un  vuoto, ma un  pieno.

Per questo non sono convinto di come sia stato abbandonato il tema del lavoro notturno, con l'enorme significato che il mondo del notturno porta con sé. "Chi lavora di notte, poi recupera le ore di sonno", ci dicono. Ma dormire significa entrare in un'altra soglia, come ci ha spiegato la grande cultura del Novecento:  e questo non lo puoi trasporre, perché non solo significa non avere la possibilità di stare nello stesso letto con la propria moglie, o con il proprio bambino, ma coinvolge tutta l’enorme questione del “notturno”, come ci hanno spiegato non solo Freud, ma altri grandi autori, come  Kafka.

E allora, se dobbiamo affrontare la questione del tempo e della sua riappropriazione, dobbiamo rendere più chiare le sue implicazioni ed il legame con i contenuti del tempo di non lavoro, che riguardano lo stare in comunità, la fede, la passione estetica, l’amore: perché anche questo ci viene tolto.

Se accettiamo questo punto di vista  allora dobbiamo affrontare la questione di cosa è il non produrre.

Ho scritto dei versi sull’alta febbre del fare e non ho trovato molto ascolto, anche perché alludevo ad un altro fare.

Nel libro si sviluppano ragionamenti interessanti sul telelavoro che, qui sta il paradosso, non produce tempo libero ma, viceversa, si traduce in assenza di orario e quindi, dilatando all'infinito il momento lavorativo,  in assenza di  libertà.

Ma se vogliamo affrontare questi aspetti dobbiamo cogliere la complessità dell’accaduto e le implicazioni della rivoluzione che si è compiuta.  Se il tempo della vita personale, degli affetti e dei divertimenti, è diventato un polmone a disposizione dell’azienda, è necessario ragionare sulla vita delle persone sia in termini quantitativi che qualitativi.

Cosa è, ad esempio, il lavoro a chiamata? E’, a suo modo, una forma di schiavitù. E allora dobbiamo includere nella nostra valutazione anche l’autonomia personale, la specificità individuale ed il suo progetto. Perché fuori dal momento produttivo la differenza dell’individuo torna con una forza che non possiamo dimenticare e quindi entra in gioco il rapporto tra società lavorativa ed individuo.

Solo se ci porteremo su queste sponde  saremo in grado di elaborare una risposta.

Il processo sconvolgente della sostituzione dell’uomo da parte della macchina, ma anche della riduzione dell’uomo a macchina vitale, è emersa con chiarezza nella vertenza alla Zanussi, dove anche il sindacato ha condotto una battaglia, per dimostrare come quella proposta, che riguardava l’orario di lavoro, avesse un contenuto eversivo; e come l’affitto delle persone rischia di diventare l’affitto delle possibilità di progetto.

Noi, contro questo tentativo di riduzione della persona a macchina vitale, dobbiamo far intervenire un altro tipo di calcolo, un’altra scala di valori, altrimenti saremo sconfitti.

Questo comporta valorizzare appieno il tempo di vita, non solo come riposo, ma come tempo creativo. Non restauro per il lavoro, non parentesi per la vita vera, che sarebbe  nel lavoro. Anche la canzone famosa, che pure ho cantato molte volte, “noi vivremo del lavoro o pugnando si morrà”, oggi mi persuade fino ad un certo punto.

In questo ragionamento anche la formazione deve essere, certo, formazione  e riqualificazione per il lavoro, ma anche possibilità di fruizione di altro.

Il fare ha molte facce, si fa anche non facendo, e quindi dobbiamo estendere l’idea dell’agire umano e dell’esperienza umana fino a valorizzare il “non fare” e fino a comprendere ed a misurarci con le sfere del sonno, del sogno, del gironzolare, del contemplare. Su questo terreno abbiamo subito l’espropriazione più grande, addirittura simbolica: l’espropriazione della notte. E  noi, sinistra e sindacato, abbiamo ceduto su quel nodo, senza grandi clamori.

 Di cosa hanno paura i lavoratori se portano avanti un discorso di questo genere? Di essere considerati sfaticati?

Nel libro si cita un segretario dei metalmeccanici che negli anni ’70 a proposito delle 150 ore disse “i lavoratori hanno diritto ad avere una cultura generale, anche se poi dovessero utilizzarla per suonare il clavicembalo”. E' molto bella questa frase che, sintenticamente, dice quello che ho espresso finora. 

Voglio aggiungere un’ultima considerazione critica: vedo nel sindacato un deficit di memoria storica. Oggi, contrariamente a quanto è avvenuto in passato, alla sfida posta dalle nuove forme educative e dai moderni strumenti di comunicazione (in qualche modo il maestro e il prete che entrano in camera da letto) il sindacato non sembra in grado di rispondere con strumenti adeguati.

Di fronte a mutazioni di portata trascinante, mi colpisce il fatto che non si discute,  non si spendono risorse; mi colpisce che il sindacato, insomma, abbia perduto quel gusto dell’egemonia, che pure, in alcune fasi, lo portò ad avere posizioni più avanzate, rispetto ai partiti storici della sinistra

Fuori dalla volontà e dalla capacità di intervento su questi diversi terreni, ci dicono le ultimissime pagine del libro, c’è la deriva corporativa nei luoghi di lavoro, vale a dire la caduta dei grandi progetti e della riflessione sull'uomo, che sono stati essenziali per far crescere quello straordinario sindacato che oggi è in crisi.

 

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“Ci siamo!”

 

Milano, giovedì 12 ottobre, ore 20.00: la legge di Murphi (“se qualcosa può andare storto, sicuramente lo farà”) non è un’invenzione.

Sciopero dei mezzi; acqua a catinelle; semafori in tilt; agli incroci, grovigli d’auto inestricabili, sulle strade, code inamovibili; i vigili, una razza estinta.

Insomma, la serata adatta per dire “Ci siamo!”.

Nonostante tutto, e incredibilmente, alla sala Di Vittorio della Camera del Lavoro cinquecento persone hanno assistito alla presentazione del libro di Maurizio Zipponi “Ci siamo! Operai, impiegati, precari nella nuova economia” (copertina rossa, ingranaggio grigio con punto esclamativo al centro, che evoca la pubblicistica degli anni delle grandi lotte operaie).

E se Rossana Rossanda, Cesare Salvi, Fausto Bertinotti, Mario Agostinelli, si sono presi la briga di discutere del mondo del lavoro, delle sue trasformazioni, e di sinistre; se tanta gente ha deciso di uscire dei casa per ascoltarli, allora, non solo il lavoro non è finito (e chi lo teorizza dice le bugie) ma c'è molto da fare.

 

I testi non sono stati rivisti dagli autori

 

 

Rossana Rossanda

 

Nell’enorme quantità di testi sul lavoro e sulla fine del lavoro, questo piccolo libro ha il pregio, non solo di essere scritto con semplicità e chiarezza, ma di essere scritto da qualcuno che, regolarmente, accompagna le tesi e le idee che avanza con quel che ha visto e ha vissuto, all’Ansaldo Energia di Legnano, piuttosto che alla Marelli di Corbetta, dando (cosa che i sociologi non fanno) la percezione  immediata di cosa è stato in questi anni e cos'è oggi una lotta all'interno del mondo del lavoro.

Sono dell'idea che i libri vadano comprati, letti, diffusi: tanto più questo, che va completamente ed efficacemente contro il senso comune diffuso nella cultura sociologica e politica dominante, secondo la quale siamo alla fine del lavoro, o perlomeno grazie al progresso tecnologico, ad una riduzione esponenziale del lavoro dipendente ed alla possibilità di un lavoro che, affrancandosi dallo sfruttamento, si trasforma nella categoria un po’ confusa (sulla quale Zipponi fa chiarezza) del lavoro autonomo. In ogni caso, non saremmo più in una fase un cui sono esigibili i diritti del lavoro sui quali tutto il dopoguerra, non solo italiano, ha basato e sviluppato la propria esistenza politica.

La mia generazione, ad esempio, è cresciuta nella percezione che ci fosse, oltre ai partiti politici, una presenza sociale dominata, sostanzialmente, da una proprietà capitalistica sempre meno agricola e sempre più industriale e, dall’altra parte, da quella che veniva chiamata classe operaia, la classe lavoratrice che ingaggiava battaglie per la democrazia, per i diritti e il valore del lavoro, per il salario. Molti ricorderanno la lunga fase di dure lotte, che è poi sfociata nel periodo compreso tra il '67 ed i primi anni '70, nel corso del quale il soggetto del lavoro acquisisce anche una forte coscienza.

Un grande suggeritore della politica italiana oltre che governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, sostenne allora che le ragioni dell’impossibilità di una crescita e di un ammodernamento forte dell’industria e della produzione italiana stavano proprio nella forte conflittualità sociale,  nella crescita della domanda e dei bisogni  che veniva dal mondo del lavoro e che il conflitto acceso che aveva investito gli operai (in una convergenza con gli studenti), era la causa dell’impossibilità di rinnovamento del sistema politico. Carli, nel 1977, diceva con chiarezza quello che oggi sentiamo ripetere continuamente: che la crescita dell’economia nel nostro Paese è ritardata dai lacci e lacciuoli costituiti da un lavoro "rigido",  cioè con troppi diritti. Intendendo per diritti il tempo di lavoro indeterminato, la non licenziabilità senza giusta causa (confermata dal recente referendum), una quota sul salario enormemente cresciuta alla fine degli anni ’60, un sistema normativo che difende e privilegia il lavoro in rapporto alle leggi obiettive della crescita economia.

La tesi di Carli viene usata oggi non solo da Confindustria ma diffusa dai mezzi di informazione di massa e sostenuta anche in libri di sociologi sulla fine del lavoro.

La richiesta, in nome di una presunta obiettività delle leggi dello sviluppo economico, è che il lavoro diventi una merce soggetta soltanto alla contrattazione di mercato, non abbia quelle che vengono chiamate rigidità ma sono i suoi diritti. In questo modo il mercato, con la sua mano invisibile (è una vecchia storia), avrebbe una funzione di equilibrio, anche attraverso tensioni e conflitti,  e il risultato finale sarebbe una crescita dell’economia e quindi un aumento dell’occupazione, del lavoro, del benessere.

Questa è la tesi generale contro la quale si pronuncia con molta chiarezza e sulla base dell’esperienza il libro di Zipponi. Nega che oggi non ci sia più spazio al contratto tra le due parti, contesta il fatto che esista un solo bene in sé: la produzione economica con i suoi meccanismi per cui il padronato ha il diritto di ridurre tutte le forme del conflitto e della contrattazione. Questa tesi viene denunciata in "Ci siamo!" come tipicamente ideologica, così come è considerata “falsa coscienza” la teoria secondo cui il mercato può equilibrare di per sé nel suo gioco l’insieme delle forze sociali; e, soprattutto, è da combattere l'idea che si è venuta rafforzando all’interno delle forze della sinistra, delle organizzazioni sindacali ed anche nel senso comune, che così è, che non si può fare nulla di diverso.

Naturalmente la critica de sindacalista Zipponi alla sinistra è non solo di aver rinunciato ad una prospettiva di superamento del sistema capitalistico, ma anche di essere progressivamente arretrata di fronte alla necessità di una contrattazione che rifiuti di considerare il lavoro come una qualsiasi merce,  ed all'idea che compito dello Stato e del sistema politico sia quello, nella dialettica delle parti sociali, di difendere e sostenere come interesse comune i diritti del lavoro organizzato.

Questa è la tesi del libro, che poi si precisa con una serie di dati e di esperienze dalle quali emerge quanto sia falsa la teoria della fine del lavoro: su scala mondiale assistiamo ad una  "messa al lavoro" di dimensioni inedite per la produzione di profitti, di quantità e specificità umane non soltanto operaie; e, anche da noi, il lavoro dipendente (che è lavoro tipicamente sfruttato) non è diminuito.

Accanto al lavoro dipendente si sta sviluppando una forma di lavoro atipico assolutamente congeniale alla volontà del  padronato, per cui il lavoratore, senza una difesa legiferata e organizzata, è solo di fronte all’impresa.

In questa grandiosa messa al lavoro e al profitto del mondo,  aumenta, contrariamente a quanto avveniva in precedenza, il tempo sottratto alla persona, al lavoratore, fino alla richiesta della sua totale disponibilità all'impresa (il lavoro a chiamata proposto alla Zanussi è esemplare da questo punto di vista).

C’è una devastazione dell’idea del lavoro, in presenza di un potenziale soggetto sociale planetario che, come è accaduto per lo schiavismo e dovrebbe succedere per la mercificazione del corpo, potrebbe portare avanti un'idea di società in cui il lavoro umano sia  qualcosa di non riducibile a sola merce.

La tesi di Zipponi (ed io condivido questa idea) è che siamo di fronte ad una aggressione ad uno dei diritti fondamentali della modernità  e che bisogna invertire la tendenza.

E qui si tocca un tema che interessa direttamente la sinistra e la Cgil.
Di fronte all'operazione globale di impossessamento del corpo e dell’anima dei lavoratori ai fini dell’impresa e del profitto, si pone una domanda: la collettività politica, la sfera politica, la sinistra, deve intervenire o  fare propria la tesi che il mercato decide di tutto e che quindi l’istituzione pubblica, la sfera statale non deve intervenire in questo meccanismo virtuoso?

Zipponi non si nasconde che nel corso dell’ultimo decennio la sinistra ha rinunciato alla tesi secondo cui il lavoro è un soggetto sociale indisponibile.

Il 1989 non solo ha annullato l'idea che si dovesse spezzare il sistema capitalistico, ma ha distrutto anche l’ipotesi che si dovesse contrattare il lavoro, cioè la tesi socialdemocratica per cui la sinistra può (anzi deve) rinunciare all’abbattimento del sistema, però deve contrattare e difendere i diritti del lavoro.

In questo cambiamento che forse è ancora in corso, Zipponi vede anche la crisi, il distacco crescente dell’opinione pubblica e dei lavoratori dal sindacato e dai partiti politici, fino all’astensionismo, cosa non abituale in un paese come il nostro dove la partecipazione al voto è stata sempre molto alta.

Così il distacco dalla politica si trasforma in un clima diffuso di antipolitica, anticamera della destra.

Il mutamento dell’idea di società e lo scomparire della necessità, della legittimità di una dialettica sociale, allentando il rapporto di fiducia tra i lavoratori e la loro organizzazione, mette in crisi il sindacato.

La tesi più netta avanzata nel libro è che l’annullamento dei diritti del lavoro dequalifica il complesso della produzione, mentre una reale dialettica sindacale spingerebbe l’impresa ad una maggiore qualità della produzione e che, quindi, l'annullamento del conflitto faccia male all’insieme della società, mentre il rilancio di una forte azione politico sindacale sul lavoro ed i suoi diritti sia fondamentale per lo sviluppo. Quindi, conclude Zipponi, è necessario un nuovo compromesso,  nel senso di una regolazione dei rapporti di forza tra i due soggetti sociali in campo.

 

 

Cesare Salvi

 

Questo libro nasce da una esigenza che chi, come molti di noi, è ancora mosso da una passione politica e sociale, avverte in questo periodo: sono visibili i segni di una sconfitta, di un arretramento, e ci si pone il problema di come reagire, non rassegnarsi o non illudersi che i meccanismi della politica spettacolo, più o meno efficaci, siano una forma di reazione adeguata.

Il problema è più profondo e  non si risolve semplicemente studiando meccanismi comunicativi (cosa che pure conta), o scegliendo candidati particolarmente abili nelle apparizioni televisive.

C’è qualcosa di più rilevante se tutta la sinistra, quella al governo e quella che negli ultimi due anni è stata all’opposizione, ha perso dalle elezioni del  ’95 – ’96 ad oggi circa quattro milioni di voti (tanti sono, infatti, gli elettori che nel ’95 o nel ’96 votarono PDS o Partito della Rifondazione Comunista e che alle recenti elezioni europee e regionali non hanno votato a sinistra), così come sono reali ed evidenti  le difficoltà di rappresentanza politica dei partiti della sinistra e quelle di rappresentanza sociale del sindacato.

E allora il nodo di fondo è analizzare i problemi, i percorsi, i processi in corso e vedere quali risposte sono state date e quali eluse.

Spesso non si è compreso ciò che sta accadendo nella società italiana, nel mondo del lavoro, a cominciare dal fatto che esiste un problema di lavoro dipendente. Spesso si sono date risposte che colpiscono negativamente, lasciano il segno e fanno intendere come non si sia colta la portata dei problemi: il discorso sulla fine del posto fisso ad esempio, quante incomprensioni, che messaggio negativo ha di fatto trasmesso, al di là delle intenzioni di chi lo proponeva. E, soprattutto, c’è una politica della sinistra che non affronta i temi e le questioni vere.

“Ci siamo” collega esperienze concrete, vissute, con tematiche più ampie e complessive ed affronta i problemi reali del mondo del lavoro, ricercando soluzioni e risposte positive. Dal mio osservatorio di Ministro del Lavoro è utilissimo per capire molto più di quanto non appaia da una rappresentazione mediatica che poi trascura la sostanza delle questioni.

Zipponi non si lamenta perché il mondo cambia, non pensa che le vecchie soluzioni, le vecchie risposte siano ancora valide; quindi è del tutto estraneo all’accusa  che, più spesso a torto che a ragione, ma a volte a ragione, viene rivolta alla sinistra, di essere conservatrice.

Qui c’è un tentativo di individuare risposte nuove: il ragionamento sulla formazione, sull’innovazione, la riflessione sul nodo del rapporto tra tempo di lavoro e tempo di vita visto soprattutto come il tema su cui si può e si deve costruire un nuovo compromesso  sociale. Un compromesso avanzato (questa è la proposta politica finale) tra le esigenze delle imprese e quelle dei lavoratori, che tenga conto delle trasformazioni ma abbia il carattere di un compromesso vero (cioè gestito socialmente, collettivamente, non individualmente) e, questo è il punto cruciale, che abbia come oggetto l’organizzazione, la ripartizione del rapporto tra tempi di vita e tempi di lavoro.

Torna più volte la consapevolezza che questo problema non si risolve con una formula o con una legge una tantum, ma che ci sia una centralità che va al di là anche delle specifiche soluzioni che vengono date.

Lo diceva Rossanda (ma ce lo aveva già spiegato Marx): il contratto di lavoro non è uguale agli altri contratti.

Nel contratto di lavoro l’oggetto dello scambio è la  persona, la forza lavoro,  si tratta quindi di un contratto che  qualitativamente è ben diverso da quello che riguarda i beni o le merci esterne. Questa considerazione conta ancora più del fatto, pure importante, che nel contratto di lavoro le parti sono due, strutturalmente diverse, una più forte, una più debole, che il rapporto è strutturalmente diseguale,  e che, quindi il contratto di lavoro non può essere assimilato ai normali contratti di diritto privato che, viceversa, si basano sull’idea della parità formale delle parti.

E’ un tema importante su cui la sinistra, come in molti altri campi, ha avuto una difficoltà, una debolezza di riflessione e di capacità di risposta.

Torna nell’idea di Berlusconi che propone il contratto individuale e libero; torna nell’idea delle regolazioni di rapporti di lavoro come  peso,  vincolo, come  ostacolo; torna quando si tenta di cancellare quel complesso di regole e diritti conquistati in decenni di impegno sociale, culturale e di riflessione dei lavoratori, con una proposta che si presenta come moderna ma che in realtà, come ricordava Rossana, è una soluzione che esisteva cento anni fa, prima che si costruissero il diritto e le regole del lavoro.

In realtà il neoliberismo, forse l’ultima delle ideologie rimasta, è anche la più vecchia perché ripropone in veste moderna soluzioni del passato.

E allora è importante che su questo ci sia una reazione, politica ma soprattutto culturale e  sociale, che sappia costruire risposte alternative, diverse e più avanzate ai problemi.

Zipponi affronta il tema del precariato e delle tutele sociali e propone di farsi carico in positivo del problema dei giovani che hanno un rapporto  di  lavoro incerto, temporaneo, interinale collegando a questa condizione lavorativa il meccanismo della tutela minima di reddito, che non significa salario sociale minimo e diffuso, perché avverte la necessità di separare la logica del lavoro dalla logica dell’assistenza.

Mi ha colpito, e non l’avevo trovata altrove, l’idea di  incardinare questa tematica su chi ha un lavoro temporaneo o precario in vista della stabilizzazione del rapporto del lavoro.

Faccio questo esempio per dire che c’è, e questo è importante per la sinistra di oggi, la capacità di avanzare proposte nuove ai problemi.

Il ragionamento e la proposta politica alla fine del libro parte (come si dovrebbe più spesso fare) da una analisi della situazione, delle forze sociali e degli orientamenti politici e culturali in campo.

Anzitutto contrappone il modello sociale degli Stati Uniti con il modello sociale europeo.

Il  modello sociale statunitense, presentato sempre come modello di riferimento, viene proposto come modello forte sulla base di una scelta ideologica o culturale: quella che gli indicatori della qualità di un paese siano alcuni e non altri, che gli indicatori di successo siano la crescita del prodotto interno lordo, indici di occupazione svincolati dalla qualità del lavoro che viene impiegato e così via. E’ una premessa culturale e ideologica che deve essere resa esplicita, perché non è detto che quegli indici debbano essere assunti da tutti.
Nel bellissimo libro “Sviluppo e libertà” Amartya Sen  scrive: intanto capiamoci su cosa intendiamo per sviluppo, perché da quello poi si arriva a ragionare su cosa intendiamo per libertà. Si può intendere per sviluppo la crescita della ricchezza complessiva e basta, ed è un punto di vista, non è oggettivo. Se alla crescita della ricchezza si aggiungono altri indicatori come la coesione sociale, la speranza di vita media della popolazione, le differenze, ecc. allora emerge un’altra idea di sviluppo. Sulla base di quest’altra idea di sviluppo i giudizi di valore sono diversi e anche la nozione di libertà da tutelare cambia perché diventa più articolata (è un discorso che consente anche di articolare teoricamente il rapporto tra libertà e socialismo in modo meno semplicistico di come tante volte si sente fare anche a sinistra in tempi recenti).

Il modello sociale americano presenta certamente, se si guarda alla crescita in termini di prodotto interno lordo indici estremamente avanzati; ma se si assumono altri indicatori, anche numerici, di valutazione il giudizio è completamente diverso.

Ha ragione Zipponi: la percentuale della disoccupazione negli Stati Uniti è bassa anche perché viene scomputato il dato della popolazione carceraria che quest’anno ha superato i due milioni di persone; riportata alla popolazione italiana, qui dovrebbe esserci mezzo milione di carcerati, cioè nove volte quelli effettivi.  Il basso tasso di disoccupazione degli Stati Uniti è il prodotto di quel tipo di modello sociale, anche perché la popolazione carceraria risponde ad una esigenza di controllo sociale che riguarda prevalentemente, se non quasi esclusivamente, giovani di colore delle aree urbane.

Questo è l’esempio più vistoso, se ne potrebbero aggiungere altri, anche più significativi: l’aspettativa di vita della popolazione americana è la più bassa dei diciannove paesi più industrializzati dell’OCSE, evidente conseguenza di un sistema estremamente ridotto e modesto di welfare; ci sono poi l’indice di povertà, l’indice di analfabetismo funzionale  e così via.

Quindi noi abbiamo in Europa un modello sociale che, sia pure con i suoi limiti, le difficoltà, le carenze, assume (o ha assunto finora), almeno a livello di principi, che non è poco, un punto di vista diverso, più ampio, più complessivo di valori di riferimento.

Zipponi si domanda: necessariamente in Europa bisogna passare dalla fase liberista prima di avere la possibilità di riprendere un discorso di tipo sociale?

La domanda è giusta ed io credo che la risposta debba essere con chiarezza: no.

Non solo per un giudizio di valore, ma anche per un giudizio legato a quelli che sono oggi, anche in queste nostre nazioni ricche, se li si sa cogliere e interpretare, i sentimenti diffusi in settori crescenti della popolazione.

Fino a non molto tempo fa, il neoliberismo ha avuto una sua forza egemonica nell’indirizzare costumi, senso comune, orientamenti di fondo nelle nazioni dell’Occidente avanzato, negli Stati Uniti, in Europa.

La tendenza contro lo statalismo, la spesa pubblica, il burocratismo spingeva  settori diffusi di ceto medio a considerare le proposte che articolavano il discorso “libertà” anche in campo economico, come potenzialmente vincenti e fortemente maggioritarie. Questo processo ha avuto conseguenze vistose.

Oggi non è più così: c’è un senso diffuso e crescente di insicurezza, miscela di fattori diversi, che può avere anche derive inquietanti di tipo populistico. Si traduce in termini di ordine pubblico, nei casi peggiori può rivolgersi verso l’estraneo, il diverso, ma è, generalmente, un senso di insicurezza nelle prospettive di vita, nelle protezioni sociali, nella conservazione del posto di lavoro, a proposito dello slogan devastante “il posto fisso è finito”.

E allora, il senso diffuso di insicurezza richiede un ritorno a protezioni, a una logica solidaristica.

E’ un punto molto delicato da cogliere nella direzione giusta, del resto gli stessi partiti della destra cercano di darsi ormai una copertura di questo tipo.

Busch aveva provato con la teoria del “conservatorismo compassionevole” ma la netta scelta  di Al Gore, almeno nella fase iniziale della sua campagna elettorale, di difesa e rilancio dello stato sociale lo ha messo in difficoltà.

I conservatori inglesi hanno appena concluso il loro congresso dove, di fronte agli errori anche devastanti commessi da Blair, hanno scelto un taglio molto populista. Portiglio, il nuovo esponente nascente, ha parlato in spagnolo, come apertura verso i lavoratori che vengono da fuori, e tutti hanno citato le proprie origini, segno che c’è un terreno diverso rispetto al passato sul quale si misura il confronto anche in termini di consenso.

Lo stesso esito del referendum danese, che ha detto no all’adesione alla moneta unica, è stato legato alla preoccupazione che l’adesione alla Unione Europea potesse significare progressivo smantellamento delle protezioni sociali, in una logica, quindi, di difesa dello stato sociale ed anche di una pressione fiscale elevata.

Da noi Berlusconi sta iniziando a fare proprio questo, è evidente il senso della sua campagna elettorale: alziamo le pensioni più basse.  Sullo sfondo si intravede il resto del programma, un programma liberista classico: lo stato assistenziale per i poveri e poi libero contratto, libertà individuali che si traducono in  libertà di licenziamento, privatizzazione del sistema pensionistico e sanitario e così via.

Oggi il problema per la sinistra è intervenire su questo aspetto con proposte innovative, coraggiose, evitando l’ inquietante saldatura tra liberismo e populismo.

Questo è, infatti,  il vero senso del rapporto tra Forza e Lega: indirizzare il senso di insicurezza verso l’altro,  il diverso, e dentro la comunità degli inclusi c’è la soluzione liberista.

Zipponi, a conclusione del libro, dice: allora l’alternativa deve essere costruita tra i veri liberali, cioè quelli che credono alle regole e al diritto, e la sinistra di ispirazione socialista e comunista.

Credo questa intuizione sia significativa ed abbia a che vedere anche con le differenze che ho appena descritto tra modello sociale statunitense e modello sociale europeo.

Certo, è sempre più evidente che se non si parte dai problemi veri; se non si riconoscono le difficoltà profonde in cui si trova la sinistra, che a volte sembrano da tutti messe da parte; se non si riconosce la sconfitta; se non si ammette che questa sconfitta  dipende da processi reali, strutturali che la sinistra non ha saputo intercettare, non ha saputo capire, a cui non ha saputo dare risposte; se con si comprendere che la risposta non sta  in meccanismi interni al sistema e al ceto politico, che pure hanno una loro importanza (aggregazioni, leggi elettorali, ecc.) perché è successo qualcosa di  più profondo; se non si capisce che  i problemi dell’oggi si affrontano analizzando cosa è successo e provando a dare risposte innovative, e costruendo su questa base alleanze che vadano anche oltre la sinistra ma che partano  dai problemi e da impostazioni culturali precise, questa situazione non si recupererà  in alcun modo.

Per questo penso che, forse, bisognerebbe fare un passo avanti rispetto alla tesi, che spesso accetta comodamente sia il mio partito che quello di Bertinotti,  dell’esistenza di due sinistre rispetto alle quali il massimo che si possa realizzare è una sorta di non belligeranza  finalizzata alla riduzione del danno, che, temo, di danni non riuscirà a ridurne molti.

 

 

Fausto Bertinotti

 

Considero il libro di Maurizio Zipponi un contributo utile anche metodologicamente. L'ho letto con piacere perché sentendo più di lui il peso della sconfitta generale, finalmente mi sono trovato di fronte a casi in cui si vince, o almeno si è determinata una incidenza reale nei processi.

Zipponi, però, non fa una operazione tranquillizzante: ha occhi per vedere, orecchie per sentire e compie un’utile operazione nel momento in cui porta il vissuto collettivo al confronto di una elaborazione. “Ci siamo” è il contributo di un sindacalista e, spero si possa dire senza retorica, è il contributo di esperienze operaie e impiegatizie, di un soggetto che  tende ad essere  cancellato anche nella sua possibilità di esprimersi.

Insomma, questo lavoro mi pare un pezzo dell'inchiesta di cui abbiamo bisogno.

Provo a dire tre cose sul libro, ed a questo mi atterrò, persino rifiutando la suggestione di una polemica aperta con Salvi sulla questione della sinistra.

Il primo punto è una messa a fuoco dell'analisi dei processi di ristrutturazione capitalistica, che sono un aspetto importante  dei più generali processi di ristrutturazione. Essi riguardano l'economia mondiale, la globalizzazione, il rapporto tra capitale collettivo e capitale finanziario, i processi di riorganizzazione più generale del rapporto tra la produzione e il consumo, il mercato e lo stato.

Zipponi li analizza da due punti di vista  distinti: quello dell'impresa e quello dei  lavoratori.

Quello dell'impresa. Mi sembra giustissima la sottolineatura di Rossanda: il libro è una replica sistematica, fondata sullo studio di casi, che rende indicibile la teoria della fine del lavoro, e l’operazione conseguente di ridimensionamento drastico del peso del lavoro anche nella percezione e nella soggettività di chi lo vive, oltre che nella cultura e nella politica.

Ciò che giustamente viene messo in evidenza è il rapporto tra l'ideologia (che tende a comprimere il lavoro) e le modificazioni strutturali, non ineluttabili che, però, quando si producono, determinano  cambiamenti che alterano anche i rapporti di potere tra imprese e lavoratori.

Le imprese cambiano, e il libro prende in esame i processi di esternalizzazione, non soltanto di attività facilmente separabili, ma di parti strutturali e decisive nella catena di riorganizzazione del processo produttivo e del processo di lavoro.

Si vede  chiaramente come l'allargamento di questa catena determini fatti socialmente significativi, sia sul versante dell'impresa che del lavoro subordinato e salariato, cioè una diversa concentrazione del potere decisionale che, anche nella catena delle imprese, viene dislocato in modo inedito in luoghi strategici sempre più concentrati.

Grazie alle intese e agli accordi internazionali e multinazionali le imprese spostano il potere decisionale lontano dai luoghi dove viene organizzata concretamente la produzione e il lavoro. Così si determina un processo di frantumazione del lavoro, delle lavoratrici e dei lavoratori e della loro rappresentanza.

Questo ultimo elemento non è accidentale, è parte organica di un processo di ristrutturazione che ottimizza l'investimento per una redditività immediata, o almeno a breve termine, mentre scompare dall'orizzonte delle imprese l'investimento a redditività differita.

Questa operazione dà ragione alla tesi di Rossanda circa i modi della riorganizzazione del capitalismo italiano che accetta una divisione internazionale del lavoro, lo colloca nei settori in cui la competizione avviene sui bassi salari e sulla flessibilità, e quindi produce una sollecitazione a  relazioni sociali e industriali in cui l’unico potere è quello dell'impresa.

Questa struttura industriale non è innocente: questo è accaduto perché fa parte di una idea, per noi pericolosa ma non stupida, che infatti ottiene qualche risultato.

Qui Zipponi affronta tre nodi politici che andrebbero approfonditi, su uno dei quali dissento.

Non concordo con la tesi ottimistica secondo cui la mancanza di conflitto sociale fa male anche ai padroni e all'impresa. In assenza di conflitto crescono i profitti, si riducono i salari e le imprese competono.

Non è vera questa idea secondo cui i padroni che competono sui settori bassi della produttività sono arretrati e quelli che competono sui settori alti sono padroni avanzati.

Ciò che Zipponi sostiene funzionava in una determinata condizione sociale, quella del compromesso sociale tra la borghesia e il proletariato, che ha realizzato lo stato sociale, il potere contrattuale dei lavoratori, i contratti nazionali. In quella fase era vero che il conflitto costituiva un elemento progressivo anche per l'impresa, che l'impresa aveva bisogno del conflitto perché competeva in un quadro in cui il compromesso sociale era l'elemento fondativo.

Ma  oggi le imprese usano il lavoro come ventre molle su cui premere e per quella via guadagnano una capacità competitiva: non hanno bisogno della spia del conflitto sociale per  correggere e innovare; sono sfidati dalla competitività all’innovazione, ad una innovazione interna al processo.  Infatti gli Stati Uniti, con il 35% degli occupati che vive sotto la soglia di sussistenza, sono competitivi, realizzano all’interno del continente uno scambio tra grandissime concentrazioni di investimenti, alte qualità strategiche e aree totali di competizione del terzo mondo.

In Italia, del resto, a un basso livello del conflitto, corrispondono alta crescita del prodotto interno lordo e altissima crescita dei profitti.

Alcuni punti su cui concordo.

Il primo e più importante: anche in questa condizione tanto dannata si può determinare un intervento operaio e sindacale che incide sui processi.  E’ il caso dell’Ansaldo citato nel libro.

Il secondo. Zipponi dice: rispetto al modello di sviluppo e al modello industriale il pallino deve tornare allo Stato.

Bisognerebbe poi discutere di quale stato stiamo parlando, se basta la dimensione nazionale o è necessaria una dimensione sovranazionale come quella europea, che tipo di poteri, di intervento statale vanno messi in campo.

Resta il fatto che, se non ricostruiamo una capacità di intervento dello stato, del pubblico nell’economia, la possibilità per paesi come l’Italia di scalare i livelli della divisione internazionale del lavoro e proporre un diverso modello industriale dentro un diverso modello di sviluppo è totalmente inesistente.

Anche in quel caso il conflitto può incidere, può cambiare, ed è tantissimo, la condizione di vita della gente, la condizione di un’impresa. Ma non modifica la tendenza generale.

Il lavoro. Il quadro che abbiamo di fronte è tale che occorre che le sinistre (quelle che ci sono, due, tre, una sicuramente non è)  provino a partire da un serio bilancio della condizione lavorativa, senza il quale è inutile qualunque discussione.

Prendendo come spartiacque l’ottobre dell’80 e la sconfitta alla Fiat, la domanda di fondo è: a che punto siamo su questioni che attengono alla condizione lavorativa quali infortuni, salario, tempo? Oggi stiamo peggio di ieri.

La precarietà è oggi strutturale. Non si è precari perché non ancora entrati nel mercato del lavoro stabile, si è precari perché il mercato del lavoro prevede: una quota di lavoro relativamente stabile, una massa di disoccupati e un’area crescente e pervasiva di precariato.

Così il lavoro precario diventa elemento guida non perché è lavoro autonomo, ma in quanto condizione moderna del lavoro, condizione del moderno capitalismo. Il precario è in qualche misura quello che nel fordismo era l’operaio alla catena di montaggio. E’ questa l’idea di fondo.

Hanno vinto nell’80 alla Fiat e il processo di ristrutturazione che è seguito ha messo sotto controllo la forza lavoro.

E la citazione fatta da Rossanda di Guido Carli è azzeccata: sapete cosa dovete fare, borghesi, o abdicate e ve ne andate, lasciando agli altri il governo della società, oppure dovete mettere sotto controllo due prezzi, quello della forza lavoro e quello delle materie prime.

Operazione in larga misura riuscita

Come si interviene su questo nodo? E, oltre al processo di ristrutturazione, ai processi materiali e alla soggettività dell’avversario di classe, abbiamo qualche responsabilità anche noi?

E’ mia opinione che, dopo la sconfitta, sia intervenuta la complicità di un sindacato che sostanzialmente è diventato parte di governo di questi processi.

Non sto parlando di tradimento, sto dicendo che c’è stata la progressiva assunzione di un altro punto di vista; è scomparsa la visione non di Marx, ma di Max Weber, secondo cui in fabbrica, nel processo produttivo i soggetti sono due: l’uno è il padrone e l’altro il lavoratore.

E’ questa idea che si è alienata, e il sindacato ha tendenzialmente assunto un punto di vista neutrale, cioè subalterno, sui processi di ristrutturazione, scegliendo precisamente la strada che la Fiat ci propose nell’80 prima dello scontro:  contrattare il peggioramento della condizione lavorativa, fino alla concertazione.

Concertazione che oggi  il padronato mette in discussione da destra: dopo aver ottenuto risultati sociali ed ideologici, tende a riproporre la pratica della decisione unilaterale, e porta alla testa di Confindustria un uomo come D’Amato.

Di fronte alla durezza dell’attacco padronale, cosa propone il sindacato?

Non si vede traccia, in Italia, di una operazione come quella che, non il capo di un sindacato eversivo, ma il numero uno del più grande sindacato degli Stati Uniti, l’ Afl-Cio, ha messo in campo,  proponendo una discontinuità radicale con la storia del sindacalismo americano recente.

E, infatti, a Seattle loro c’erano, invece a Praga i sindacati europei non si sono visti.

Allora credo anch’io, come Zipponi, che sia indispensabile una discontinuità politica e culturale.

Di quella politica non parlo, perché sono larghissimamente d’accordo conlui, su quella culturale  ho dei dubbi.

Cito due casi senza argomentare: il salario sociale e il rapporto tra legge e contratto, due facce della stessa medaglia.

Quando invoco una discontinuità, non penso ad un ritorno al passato, neppure a quella che considero la più grande esperienza del sindacalismo italiano: il sindacato dei consigli, assolutamente irricostruibile in una realtà come l’odierna.

Ma se è così, allora abbiamo il problema di un soggetto, di una soggettività di classe,  e di forme di ricomposizione del blocco sociale di riferimento e di organizzazione, che devono essere reindagate.

Non credo che una operazione come questa possa eludere il tema della disoccupazione di massa e strutturale e del salario sociale (il reddito di cittadinanza è un’altra cosa), come forzatura verso la trasformazione del lavoro precario in lavoro più stabile e la costruzione di forme di lavoro organizzato.

Non si capisce per quale ragione i trasferimenti dallo stato possono andare solo all'impresa e non, invece, a quelli cui l’impresa sottrae la possibilità di essere al lavoro.

La legge. Non è possibile ricostruire l’unità delle popolazioni lavorative disperse senza una legge che introduca uno statuto dei diritti dei lavoratori esteso ai precari, ai disoccupati, ai cosiddetti autonomi di ultima generazione, come ordinamento di diritti.

La contrattazione aveva un punto di forza gigantesco in una soggettività che era vocata a costruirsi  unità e forza concentrata.

Il quinto congresso della Cgil compì una svolta radicale, dall’idea della contrattazione centralizzata all’idea  della contrattazione articolata. Solo perché avevamo perso alla Fiat negli anni cinquanta, o forse perché avevamo indagato diversamente la riorganizzazione del processo produttivo in Italia? Soprattutto per la seconda ragione.

Oggi, è pensabile fare tutto con il contratto, oppure è necessario ritrovare una leva di riorganizzazione?

Sbaglia Zipponi quando mette sullo stesso piano chi ha rivendicato la riduzione dell’orario di lavoro con la legge e chi sosteneva che andasse fatta solo con il contratto: l’orario di lavoro è aumentato. E , fino a quando si è invocata la necessità della legge, bene o male si è discusso dell’orario di lavoro, poi il tema è scomparso.

Allora non si può più giocare, come mi avevano insegnato i miei padri al sindacato, la contrapposizione tra contratto e legge, tra la grande esperienza italiana del contratto e l’esperienza, un po’ elementare, dei francesi. Forse dobbiamo pensare ad una ricostruzione politico culturale adeguata a questo passaggio.

Ultima questione, quella politica, trattata nella parte finale del libro: il compromesso.

Sarei d’accordo con  la ricostruzione di un compromesso dinamico tra le classi che tenda ad introdurre un protagonismo diverso dell’Europa nel mondo, nelle relazioni internazionali, nel rapporto tra nord e sud ed anche come possibilità di costruire elementi di un modello di sviluppo non direttamente ricalcato dalla globalizzazione.

Ma c’è un problema: questo compromesso, in che rapporto sta con il processo di modernizzazione capitalistico in corso? Sta nelle sue corde oppure no? La mia opinione è che non stia nelle sue corde e che siamo in una fase di regressione di civiltà provocata dalla modernizzazione capitalistica.

I neopopulismi che insorgono (quello razziale, quello religioso, quello ideologico) sono in parte una reazione, ma dialetticamente entrano a formare questo processo.

Questo liberismo non è liberale, Zipponi. A parte il fatto che i due termini, non solo non sono la stessa cosa, ma non è detto nemmeno che stiano insieme.

A proposito di terze vie, Benedetto Croce, che qualche importanza nel pensiero liberale l’ha avuta, scrive nel ’44: per affermare il pensiero liberale bisogna che ci si liberi del liberismo. Croce immaginava che potesse esistere un pensiero liberale senza liberismo.

Oggi le forze egemoni pensano ad un assetto neoliberista, senza alcunchè di liberale, che si combina, anzi, con un pensiero neopopulista e sostanzialmente ademocratico.

Tutto ciò che riguarda l’Europa è iscritto in questi termini e si fa evidente nel confronto tra la Costituzione Italiana e la Carta europea dei diritti: la prima è una costruzione progressista, l’altra  è una carta fintamente liberale, in cui persino il diritto di sciopero viene marginalizzato, mentre i diritti esigibili proprio non ci sono.

Un passaggio, come quello indicato nella Costituzione Italiana, secondo cui la Repubblica deve intervenire per rimuovere le cause che ostacolano il libero sviluppo della personalità umana, viene considerato satanico comunismo.

Come conciliamo il compromesso dinamico con questa tendenza del capitalismo? Non sarà che, senza essere troppo sbrigativi,  forse bisogna mettere all’ordine del giorno la critica, la contestazione, il superamento del capitalismo? E non sarà che anche il potere contrattuale è cresciuto quando c’era una forza antagonista (in senso di critica al capitalismo) sul terreno delle culture , delle ideologie, delle prassi politiche? E non sarà che quel compromesso che si realizzò nell’Europa e nell’Italia degli anni ‘50, ‘60, ‘70  fu possibile perché (lo dico senza alcuna nostalgia) c’era l’ URSS, e c’era la lotta di classe?

Se non ci fossero stati questi due elementi, il campo dell’Est e la lotta di classe in Europa, quel compromesso non ci sarebbe stato.

Se è così, allora, parliamo pure di compromesso, ma quali sono le potenze che entrano in campo per poterlo realizzare? Questa è una domanda, credo, non più eludibile.

 

 

Mario Agostinelli

 

Vorrei concentrare le mie riflessioni su una osservazione, contenuta nel libro, tutto sommato in forte controtendenza rispetto alle valutazioni che a sinistra si danno anche oggi del ruolo, soprattutto del ruolo in politica, del sindacato e della Cgil.

Zipponi chiede se non sia vero che le difficoltà della sinistra derivino anche dal fatto che il sindacato, e la Cgil in particolare, non sono più a sufficienza terminali di conoscenza sui luoghi di lavoro.

E’ una domanda insolita, che non solo sento di dover indagare, ma che credo debba meritare una risposta molto attenta anche per le vicende di fronte a cui oggi si trova la Cgil.

Del rapporto tra la produzione e la riproduzione sociale oggi si occupa l’impresa, mentre  assistiamo ad una assenza impressionante della politica. Lo stesso sindacato, pur arretrando nella rappresentanza del lavoro, ha finito per sostituire in parte la politica su questo terreno.

Sta qui la novità, ed anche l’anomalia, dell’attuale fase della vita politica e sindacale italiana.

Anomalia che produce un doppio effetto: la  funzione, anche tra le lavoratrici ed i lavoratori iscritti, di un il sindacato “sovraesposto” in politica è quella di argine visibile rispetto alle derive che in tema di diritti sociali vengono praticate. Si riconosce, ad esempio, al segretario generale della Cgil il ruolo politico di essere argine sicuro rispetto allo sfondamento.

Ma mentre aumentano i rischi per l’autonomia del sindacato, con questa sostituzione di campo (da sociale a politico) si allontana la definizione di quel compromesso sociale, a mio giudizio indispensabile perché l’azione dei sindacato a difesa dei diritti dei lavoratori sia sufficiente ed efficace.

Mi sembra (Zipponi pone questa domanda e poi dà anche delle risposte) che uno degli ostacoli ad una ripresa della sinistra sta nel fatto che la rappresentanza del suo sindacato nel mondo del  lavoro si è fortemente affievolita. Quindi dobbiamo partire dall’analisi di una sconfitta subita anche dal sindacato.

Perché ho voluto fare questa premessa? Perché sono ormai convinto, e in questo senso mi discosto un po’ dalle interpretazioni di chi è intervenuto qui, che tutte le organizzazioni, sindacato compreso, così come sono oggi non riescono a cogliere fino in fondo quanto sta avvenendo.

Credo che la democratizzazione, e la riscoperta della sovranità dei lavoratori, degli iscritti, dei rappresentati, dentro le organizzazioni, compresa quella sindacale, sia il problema più grande che abbiamo di fronte.

Cosa contano gli iscritti della Cgil di fronte al Congresso? Così come: quanto contano, ad esempio, gli iscritti ai partiti, o cosa contano i cittadini rispetto alle amministrazioni? Questa questione,  nel sindacato è assolutamente non sufficientemente all’ordine del giorno.

Per questo non mi convince l’idea che il prossimo Congresso della Cgil, che sarà una grande prova, magari anche democratica perché si vota, si trasformi in una prova elettorale tra i lavoratori chiamati a scegliere su documenti che sono espressione di posizioni tutte interne agli apparati. Questa modalità non è adeguata alle cose che, anche qui, sono state dette qui. Sono estremamente determinato, ma probabilmente non riusciremo a misurarci su questo nodo.

Finiremo per fare dell’occasione più grande che abbiamo davanti (in questo senso il libro mi interessa molto), in cui, potenzialmente, si sentono tutti i cinque milioni di iscritti e pensionati, un momento in cui l’ascolto e il diritto di proposta di quegli iscritti non si attua, non si realizza. E dove, tutto sommato, l’appartenenza a culture e posizioni politiche dell’apparato fa velo della possibilità di misurarsi con cosa è cambiato all’interno del mondo del lavoro.

Per la mia cultura e storia, tengo moltissime assemblee nei luoghi di lavoro, come Zipponi, e sento che questa “ricetta” non è in grado di dare risposta alla gran parte dei problemi che vengono posti a partire dalle condizioni lavorative.

Faccio degli esempi. Abbiamo continuato a lavorare sui processi di esternalizzazione come se si andasse da luoghi dove noi avevamo presidi e che venivano ristrutturati,  cioè da grandi imprese, verso imprese piccole, disperse e non più riconducibili a qualche ragione di aggregazione. Non è così.

Oggi, in Lombardia,  le imprese più grandi sono imprese di outsourcing e di servizi.

Le imprese di che forniscono servizi per le mense o le imprese di manutenzione hanno cinquemila, seimila dipendenti, con una differenza rispetto a prima: mentre nei luoghi di partenza c’era un solo contratto di lavoro a tempo indeterminato con pienezza diritti, nelle grandi imprese, dove si ricoagula il processo di esternalizzazione non c’è controllo dell’orario, non ci sono diritti,  sono presenti dodici, quindici e  più contratti diversi.

O cogliamo che c’è un problema di ricostruzione del ciclo della rappresentanza, oppure la semplice appartenenza degli apparati ad una analisi e ad una posizione di maggioranza o di minoranza in Cgil non basta più.

Eppure finiremo lì, finiremo con il perdere una occasione straordinaria, finiremo con il rinunciare, uso un parola forte, alla sovranità dentro il sindacato di quelli che ricorrono al sindacato.

C’è una parte del libro di Zipponi, che andrebbe diffusa e letta, che parla di qualcosa di molto lombardo.

Nella nostra regione la forza del movimento operaio è stata quella di non rinunciare mai a governare il cambiamento nel lavoro “standoci dentro”.

Zipponi parla di quattro, cinque assemblee che occupano lo spazio del libro: l’Ansaldo è il lavoro decotto che viene riqualificato; l’esperienza della Abb è quella invece del lavoro professionale e qualificato che deve essere mantenuto nel contesto della competizione; il telelavoro è la trasformazione profonda del contesto temporale e spaziale dell’impiego.

Nelle nostre lotte, di cui parla Zipponi, abbiamo registrato successi e sconfitte, ma non perché da una parte c’era una linea buona e dall’altra una linea cattiva.

Perché, invece e purtroppo, la sconfitta, che pagano tutti e dalla quale, magari, non si esce più come prima, non è stata causata solo da un passaggio sbagliato nei gruppi dirigenti, ma si è realizzata perché nel conflitto di classe o la sconfitta viene riposizionata su un versante di ricomposizione adatto per ritornare a combattere, oppure l’unico esito è quello di dividerci ulteriormente.

Alle sconfitte abbiamo sempre risposto ricostruendo il terreno da cui ripartire.

Il problema che abbiamo oggi, e il libro lo dice, è che nella maggior parte dei casi non siamo in grado di  ricostruire  quel terreno.

La Falck di Sesto San Giovanni, ad esempio, non è stata una confitta: oggi lì abbiamo ricostruito condizioni ed un terreno di governo della trasformazione del lavoro per cui lo stesso rapporto con l’istituzione, con la cittadinanza, con l’insieme dei lavoratori del territorio, con i giovani in cerca di occupazione, crea le premesse per una prospettiva di successo. La stessa cosa è avvenuta all’Olivetti di Crema.

Altrove, anche qui in Lombardia, siamo stati, viceversa, incapaci di questa prospettiva: ad Arese, ad esempio.

In alcuni casi, per nostra fortuna, tra noi ed i lavoratori non c’è stato un addio; nell’ultima assemblea all’ Olivetti di Crema, con mille e venti lavoratori che concludevano la loro vita dentro la fabbrica,  ricordo l’intervento di un lavoratore che diceva: non è un addio, torniamo a combattere, a lottare, anche altrove.

Ma nella gran parte dei casi, analoghe vicende si sono concluse con un addio, con una chiusura della partita, senza i volti del lavoro in campo. La Fiat vale per tutti.

Zipponi scopre, come filo conduttore dei conflitti, il grande tema del tempo. Sono convinto abbia ragione.

Sono cresciuto in una fase in cui il modello di lavoro entro cui le nostre lotte si strutturavano, per poter autonomamente conquistare potere, era quello che aveva dato vita ai consigli: i reparti strutturati con una sequenza, con una finalità riconosciuta, con un filo autonomamente dipanato.

Oggi le rappresentanze e le loro articolazioni nell’organizzazione del lavoro non si ricompongono più soltanto nello spazio della fabbrica e degli uffici, che non esiste più come lo conoscevamo, ma nel tempo, e questo è terreno ancora da esplorare.

Qui si colloca la proposta di Zipponi, di cui ancora non si è parlato in questo dibattito, ma che considero fondamentale.

Nel patto taylorista la ripartizione della giornata – otto ore di lavoro, otto di riposo, otto di tempo libero – era l’oggetto di rivendicazione. Adesso è la ripartizione del tempo sulla settimana la leva di cambiamento per una riappropriazione ed un autogoverno del tempo di vita e di lavoro.

Quattro giorni di lavoro, due di riposo, uno di formazione è la ricetta che il libro fornisce. Cerchiamone tutte le implicazioni e vedremo quanto è innovativa, quanto conflittualmente “moderna”.

Ad esempio, qui in Lombardia, sulla formazione c’è uno scontro molto alto: viene privatizzata dalla Regione, non è retribuita dalle aziende, è addirittura falsificata nei rapporti di apprendistato, è finalizzata solo all’impresa e sottratta all’interesse più generale che aveva dato vita all’esperienza straordinaria delle 150 ore.

Nel contesto sociale in cui viviamo, i due giorni di riposo che altro sono, se non lo spazio per l’industrializzazione dell’offerta del tempo libero e per la commercializzazione persino della parte dell’esistenza che non è stata occupata dalla prestazione lavorativa?

Credo che il compromesso sociale che dobbiamo conquistare debba passare dalla discussione e dalla decisione sul governo del tempo, naturalmente con precisi riferimenti alla natura del lavoro ed ai rapporti di produzione.

 

 

Maurizio Zipponi

 

Non è il mio mestiere scrivere libri. Ho accettato di farlo per affermare l'esigenza, che non è solo mia ma dei molti con cui mi ritrovo quotidianamente a discutere, di non accettare come scontato e irreversibile che sul piano  politico  comunque si perderà e la destra governerà il paese e che sul piano sociale i lavoratori non possono avere una rappresentanza sindacale generale, democratica diversa dalla attuale.

E allora è indispensabile porsi e rispondere ad una domanda: i lavoratori, non entità astratta ma persone in carne ed ossa, che con un milione e mezzo al mese devono pagare un affitto o un mutuo, mandare a scuola i propri figli, far quadrare i conti, a vent’anni dall'inizio dei processi di ristrutturazione, stanno meglio oppure  peggio?

Chi lavora, oggi,  sta peggio.  Perché si è ridotto il potere d'acquisto del suo salario ma, soprattutto, perché si sente solo, impotente rispetto alla possibilità di cambiare insieme ad altri la propria condizione.

E sulla constatazione dell'oggettivo peggioramento della situazione del lavoratore si inserisce l'ideologica, pervasiva teoria (con cui veniamo da un po' di tempo bombardati) secondo la quale: certo che gli uomini e le donne che ogni mattina si recano nelle fabbriche e negli uffici stanno peggio; non potrebbe essere diversamente, dal momento che stanno scomparendo per essere sostituti da figure professionali diverse e più "moderne",; dal momento che il lavoro tradizionalmente sfruttato non è che un residuo del passato, che i nuovi lavori sono, e sempre più saranno, autonomi, coinvolgenti, gratificanti.

Ma cosa scompare, e, soprattutto, con cosa il lavoro dipendente viene sostituito?

Scompaiono le parole del nostro vocabolario, rimpiazzate da moderni termini inglesi: indicano le stesse cose, ma sono meno chiari, a volte incomprensibili, incutono timore, disarmano; appaiono come il futuro mentre propongono il più retrivo passato.

Tutti imprenditori di noi stessi, allora?

Ma cosa viene proposto, oggi, ad un giovane? Ti assumiamo con un contratto di collaborazione, così sei autonomo. Anzi, facciamo come dice Bossi: ti diamo i soldi in mano, tutti, poi  ti devi pagare i contributi, le tasse, li prendi per undici mesi e non per dodici, non hai le ferie, la maternità, non ti puoi ammalare; sei imprenditore di te stesso nel senso che con i soldi che ti abbiamo consegnato non hai alcuna protezione.

Questa condizione di lavoro, che sta sostituendo quella tradizionale, rende migliore l'esistenza degli uomini e delle donne? La solitudine, è una conquista di progresso? La precarietà, è un elemento rasserenante, che aiuta nella costruzione del futuro?

No, no, no. Non lo penso solo io, lo dicono le lavoratrici ed i lavoratori. Basta ascoltarli. 

Proprio per questa ragione, io chiedo ai compagni seduti a questo tavolo e a chi stasera è qui: è possibile la ricostruzione di una dialettica? Non discuto del numero delle sinistre, è vero, sono tante, e oggi il pensare di ricomporle sulla base delle appartenenze non è una ipotesi immediata e perseguibile. Ma penso (e non credo sia stupido ottimismo) che se la sinistra italiana, moderata o radicale che sia, ricostruisse la catena del lavoro –  comincia con un'idea, poi l’idea diventa progetto, il progetto diventa merce, la merce viene venduta e poi acquistata - e su quella  misurasse una rappresentanza del lavoro  e dei lavoratori, si potrebbero trovare punti di piattaforma comune.

Rassegnarsi all’attuale situazione è un errore: siamo in una fase di transizione, le modifiche del lavoro e dell’impresa ci dicono che possiamo intervenire con piattaforme, rivendicazioni e conflitto.

Certo, il sindacato è uno snodo fondamentale in questa discussione.

La Cgil ha sottovaluto, o non vuole ammettere, la crisi profonda che la sta attraversando, tanto che chi tenta di ragionare su questo terreno viene considerato visionario.

Eppure io sento che il sindacato è fuori dalle stanze dove si decide quali le merci e servizi vengono prodotti, come vengono prodotti,  quali sono l’organizzazione e la divisione del lavoro, ed è fuori anche dai punti di sapere fondamentali.

E quando un sindacato non ha accesso ai momenti in cui si decide davvero, e l’unico  ruolo riconosciuto è quello istituzionale, è evidente che è un sindacato in crisi, non fosse altro perché è in balia dei mutamenti della situazione politica.

Quando un sindacato lega la sua linea e la sua azione ad un governo o ad un partito (di opposizione o di governo) consegna la propria autonomia al quadro politico ed alla logica dell’impresa. E questo è un errore letale.

Il sindacato e il rapporto con i lavoratori.

E’ stato da poco siglato un accordo nel settore della telecomunicazioni. Porta la firma di un segretario nazionale della Cgil. E' stato sottoposto a referendum tra i lavoratori. I lavoratori lo hanno respinto. L’accordo vale.

Allora c’è un nodo che viene prima del conflitto e del cosa rivendicare: è il patto di fiducia tra i lavoratori e il loro sindacato che va ricostruito.

Perché se nello statuto di un sindacato c’è scritto che gli accordi valgono quando i lavoratori hanno votato, ma quel voto vale solo se i lavoratori dicono “sì”, non siamo di fronte ad  un grande criterio democratico.

E allora dobbiamo metterci nella condizione di dire che con i lavoratori si ricostruisce una piattaforma su tre questioni fondamentali: salario, garanzie e tempo. Una piattaforma chiara, con alla base un principio democratico, in modo da dire ai lavoratori: facciamo un patto, abbiamo una piattaforma, avviamo la lotta per sostenerla e io, sindacato, firmo il contratto, l’accordo solo se tu,  lavoratore, lo approvi.

O su questi nodi il sindacato cambia, introduce una forte discontinuità con il passato, oppure il problema non sarà tra maggioranza e minoranza in Cgil.:  la C.G.I.L. entrerà in un crisi irreversibile.

Mentre la Cisl può sopravvivere dentro una deriva corporativa, la Cgil senza una piattaforma, senza una autonomia vera, fortissima, senza una sburocratizzazione, senza una corrispondenza del suo gruppo dirigente tra il dire e il fare, rischia se stessa.

Anche perché agli imprenditori, anche oggi, non fa comodo avere un sindacato confederale come la Cgil.

Termino sul punto del mio ragionamento su cui Bertinotti ha avanzato delle perplessità. Non penso che le imprese soffrano l’assenza del conflitto.

Ma sento che le imprese e le loro associazioni hanno un punto critico: se l’impresa italiana e il sistema paese concorre sul basso costo del lavoro e sulla riduzione delle libertà dei lavoratori, è lì che vengono indirizzati investimenti e la ricerca, cioè è lì che viene indirizzata l’impresa. E, non il sistema, ma l’impresa che guadagna, perché paga poco i propri lavoratori non ha prospettive sul medio e lungo periodo: oggi, per effetto della globalizzazione, un imprenditore, o si pone l’obiettivo di portare il salario di un metalmeccanico italiano a trecentocinquantamila lire al mese, e allora regge la concorrenza con i prodotti indiani, oppure,  se non ci riesce, viene buttato fuori dal mercato.

Allora non sostengo che le imprese si augurino il conflitto, vado più in là: dico che un conflitto sul salario che costringa  l’imprenditore a cercare prodotti ad alta qualità che competano su un mercato non a basso costo, non è nell’interesse del singolo imprenditore, che ovviamente preferisce la strada breve del pagare poco, ma è nell’interesse anche del sistema delle imprese.

La tendenza a ridurre stato sociale e salari, ad un certo punto mette a rischio anche l’equilibrio democratico di un paese.

Recentemente, seppure in modo meno vistoso che in altri paesi, abbiamo assistito alla ripresa del terrorismo.

Elezioni politiche, vertenza Fiat, contratto dei metalmeccanici e della scuola: qualora si aprissero conflitti sul salario, sulla libertà, sul tempo, iniziassero gli scioperi in Fiat, gli scioperi nei settore metalmeccanico e pubblico, le azioni terroristiche potrebbero essere usate come elemento destabilizzante. I proclami rinvenuti nelle fabbriche e le azioni dimostrative  a Milano, sono segnali da non sottovalutare.

Ho deciso, nel libro, di riportare storie di lotte operaie al termine delle quali i lavoratori hanno ottenuto dei risultati, non per dire: guardate come è facile vincere, ma per affermare che non è obbligatorio uscire sconfitti.

“Ci siamo!”, quindi, fisicamente e produciamo la ricchezza di questo paese;  possiamo (la situazione economica oggi permette la ripresa del conflitto attorno ad una piattaforma) anche vincere.  Ad una condizione: non rassegnarsi.

E a non rassegnarmi mi hanno convinto i lavoratori e le lavoratrici  durante le assemblee; me l’hanno insegnato le cinquecento donne della Marelli, che per mesi si sono opposte alla Fiat ed alla fine sono riuscite a “spuntare” condizioni diverse e migliori rispetto a quelle di altre aziende su un nodo fondamentale come il tempo.

Queste esperienze mi portano a pensare che ci sia un grande lavoro da fare: avere ambizioni più alte; non  dare per scontata  la vittoria di Berlusconi e l’annullamento dello stato sociale; non considerare irreversibile la crisi del sindacato e la frantumazione della rappresentanza del mondo del lavoro.

Ma nulla è già scritto: perché le generazioni che ci hanno preceduto erano in condizioni di vita, di libertà peggiori delle nostre; perché chi ha fatto gli anni ’50 stava peggio, i nostri padri stavano peggio, eppure sono riusciti a darci la possibilità  di stare meglio.

I soggetti in campo sono due, non uno: c’è Confindustria, ma anche i lavoratori. A loro dobbiamo dare voce sul piano politico e sul piano sociale. Per farlo dobbiamo riformare il sindacato, ed i partiti politici della sinistra devono capire che viviamo una fase di transizione e che è necessario avere ambizioni ben più alte.

Questo è il messaggio del libro e la discussione che vorrei si aprisse.

 

 

 

Rossana Rossanda

 

Condivido quello che ha detto Zipponi: viviamo in una fase di crisi profonda della cultura, del senso di sé; ci sentiamo soli e siamo persuasi che ciò che ci differenzia dai nostri padri è la loro convinzione che si potesse lottare, mentre oggi il dubbio è che non ci sia più nulla da fare.

"Si può, se si vuole e si ha la forza di rompere l’isolamento": questo è il messaggio forte da inviare.

Non è semplice.  Non solo c'è stata una sconfitta sul terreno economico, ma una sorta di atomizzazione delle persone, dei valori, del rapporto: è come se tutto si fosse frammentato senza portare a una maggiore ricomposizione.

Detto questo, voglio soffermarmi su due aspetti.

Il primo. Capisco poco, forse perché sono estranea al sindacato, la discussione in corso tra Zipponi e Agostinelli.

Se si ammette che le cose vanno sempre peggio, allora non è vero che non c’è niente da perdere fuori che le proprie catene, perché nell’ipotesi del padronato italiano c’è  non solo il progressivo svuotamento interno della Cgil, ma c’è  la sua  liquidazione.

Per quanto in crisi  la Cgil c’è ancora, è l’ultimo presidio più  di quanto non lo sia la politica (su questo Agostinelli ha ragione).

Ma, oggi, chi fa vita politica? Non la gente nei grandi partiti istituzionali, e neanche i parlamentari.

Il dire “c’è ancora qualcosa da perdere”, però,  non è una buona ragione – mi permetto di dire all’amico Agostinelli - per non vedere gli elementi di crisi profonda iscritti sia nell’aggressione capitalistica che viene sferrata, che all’interno del sindacato confederale.

La crisi profonda della sinistra e del sindacato va riconosciuta.

E, soprattutto, io che sono convinta che la mancanza di democrazia sia elemento comune della crisi di partiti e sindacato, sono certa che questa crisi di democrazia, questa mancanza di ascolto sia tanto più grave in un congresso che, come quello della Cgil, viene fatto nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro.

Non mi dite che un’ora di lavoro per presentare piattaforme è un travaglio democratico reale di un congresso! Una volta, anche in una breve assemblea, c’era un senso comune condiviso, adesso questo non c’è più.

Così come penso sia un fatto non democratico, e un segno di mancanza di autonomia, che la Cgil rimandi il suo congresso dopo le elezioni legislative.

La Cgil potrebbe svolgere il suo congresso, dovrebbe farlo, e semmai, dopo le elezioni aggiusterà il tiro.

Il fare un serio congresso adesso sarebbe stato un modo per partecipare alla ricostruzione di una volontà di sinistra nel paese.

 Siamo di fronte ad una aggressione più violenta di quella che sferrarono dopo il ’48. Allora ci dicevano “siete cattivi”, oggi ci dicono "non siete": per questo Zipponi  afferma “Ci siamo!”.

La lotta contro questa egemonia culturale si fa sul piano sindacale e sul terreno politico e culturale, non c’è un prima e un dopo, e comporta scelte sulle quali si gioca anche la questione della sinistra.

Ci ripetono che bisogna stare all’interno dell’innovazione del capitale. E allora io chiedo: in cosa consiste l’innovazione del capitale?

All'inizio del secolo scorso, le ferrovie sono state un elemento di globalizzazione del capitale; oggi la velocità di movimento del capitale urta contro la materialità immobile dei corpi dei lavoratori. Qui stà l'innovazione profonda nei rapporti di forza. Assistiamo a grandi trasformazioni organizzative nell’impresa: diventano enormi, addirittura pletoriche, aziende che non sono più il corpo produttivo, ma un sistema  di servizi a basso profilo.

Insisto: in questi processi di innovazione organizzativa e tecnologica c’è una grande vittoria del principio di unificazione culturale, su scala mondiale, delle ragioni dell’economia capitalistica, del capitale più che dell’impresa.

Sento parlare sempre di “impresa”, ma le imprese cambiano ogni cinque minuti, hanno una tale velocità di fusione, trasformazione, cambiamento che impressiona. C’è una grande crescita del capitale che, come sempre, travolge il lavoratore ed anche la singolarità dell’impresa e del suo processo di riproduzione.

Allora bisogna tenere presente che l’innovazione non toglie di mezzo la natura del capitale; è su questo che le sinistre non sono d'accordo.

La sinistra europea, mediamente,  pensa che l'unica legge sia quella dell’economia, che sia il capitalismo il motore dello sviluppo. Rispetto a questo pensa fossero sbagliate, anche economicamente, le idee di una conflittualità tra capitale e lavoro, non parliamo poi dell’idea di una società non fondata sul capitale.

E’ questo che divide le sinistre; da questo poi discendono altre scelte su terreni come la scuola, la sanità, ecc.

Zipponi sostiene che sarebbe fondamentale trovare a sinistra una posizione comune sulla necessità di ripartire dal lavoro: questo, però, significa ammettere che  il lavoro non è funzione del capitale, è un principio che noi scegliamo, non perché sia una verità teologica, ma perchè è una verità della modernità, è una verità recente. Infatti il mondo è vissuto tre milioni di anni senza che il lavoro avesse questi diritti, questo statuto. Il primo a dire che il lavoro non è funzione dell’impresa è stato Marx, interpretando la Rivoluzione Francese, poi è diventato senso comune con la fine della Seconda Guerra mondiale, nel 1945, in quello che è stato il periodo keynesiano.

Oggi il senso comune è retrocesso, quando sia parla di innovazione dei processi e per quanto riguarda lo sviluppo dell’economia e dei rapporti di lavoro, in una posizione conservatrice perché torniamo ad una idea liberista, che risale alla fine dell'ottocento, secondo cui il lavoro non ha diritti.

Qui però c’è una scelta politica, di coscienza, etica da compiere su grandi temi, altrimenti siamo "progressisti" nel senso che ciò che è nuovo va bene. Ma dove sta scritto? Penso che molte delle cose nuove non vanno bene affatto.

Ad esempio, il sostenere che dal mercato dipende tutto non va bene, perché poi ci sono i rapporti tra le persone, tra le culture; penso che abbiamo alzato il livello dei consumi ma siamo, in un processo regressivo.

Così come esistono regressi nella vita di una persona, che entra in depressione, che sta male, anche una società può entrare in depressione,  stare male.

Su questo dobbiamo capirci, per decidere che tipo di lotta portare avanti e cosa intendiamo per sinistra.

Altro punto, che  fa parte della riflessione sull’egemonia.

L’ho detto prima, non è vero che lo Stato, il bene pubblico corrispondono al bene dell’impresa. E, aggiungo, il bene pubblico non corrisponde nemmeno alla crescita della ricchezza.

Perché, lo ricordava Salvi, di cui apprezzo il lavoro e la posizione, come misuriamo la ricchezza?

Cosa significa questa crescita della ricchezza quando gli abitanti della terra, dall’inizio del secolo ad oggi, sono passati da uno a sette miliardi? Non sono una negatrice dello sviluppo, ma si va verso forme di omologazione psicologica, culturale e persino corporea e dei consumi che non credo rappresentino un arricchimento dei singoli individui.

La solitudine di cui parlava Zipponi deriva anche dal fatto che ci sono forme di impoverimento interiore, culturale, di senso di sé, legate a questo processo.

Di questo dovremmo parlare, anche il sindacato deve parlare, perché se si occupa dei beni e delle ricchezze, deve sapere che queste non sono solo il salario.

Ultima cosa. Propongo di togliere di mezzo la parola compromesso.

Penso che i rapporti tra capitale e lavoro non abbiano mai la natura del patto sociale, ma, sempre, la natura di uno scontro, perché hanno due finalità diverse.

Il rapporto di forza, di lotta, il no che si dice, non soltanto in fabbrica, ha portato via via, dopo la prima guerra mondiale,  il sistema capitalistico ottocentesco a cedere su alcune posizioni.

Tra la prima e la seconda guerra mondiale una parte dei paesi capitalistici si è indirizzata verso il fascismo, l’altra ha scoperto quello che adesso chiamiamo il compromesso sociale, cioè il keynesismo, che non era, però,  una visione ideologica delle cose, ma una constatazione dei rapporti di forza.

Togliamoci dalla testa l' idea che, ad un certo punto, i lavoratori avrebbero potuto fare la rivoluzione, invece hanno scelto il compromesso. Ogni diritto è stato conquistato con uno scontro e un rapporto di forza; scontro e rapporto di forza connaturati nell’umana natura, anche tra uomini e donne.

Allora non usiamo il termine "compromesso" e parliamo di rapporto di forza.

Il rapporto di forze moderno, capitalistico - Marx l’aveva detto - riguarda il possessore dei mezzi di produzione e chi non li ha, cioè l’immensa maggioranza del mondo, e si attua attraverso una pressione reciproca.

Il capitale si sta riprendendo tutto quello che aveva perso, non attraverso la proposta di un altro patto sociale, ma facendo una guerra nel senso moderno e avanzato della parola.

Il problema è come il lavoro può organizzare la sua forza, i suoi bisogni e la sua idea di società, all’interno di un dominio capitalistico senza più i due campi nei quali si erano identificati il campo del lavoro e quello del capitale.

Vogliamo parlare, per una volta, di questa storia in modo non puramente manicheistico e formale?

Stiamo di fronte ad una contraddizione reale tra capitale e non capitale, in un momento di grande forza e riorganizzazione capitalistica e abbiamo il problema della ricomposizione dei non capitalisti.

Questo problema ha dietro di sé una idea del valore dell’uomo e della donna, della loro indisponibilità; una capacità e voglia di organizzarsi; la convinzione che la crescita delle disuguaglianze non è accettabile.

E se riuscissimo a trovare su questo un terreno comune per l’insieme della sinistra avremmo fatto un grandissimo passo avanti.

Se riuscissimo a riconoscere che oggi, mediamente, il tenore di vita degli americani e degli inglesi è quello del 1900, non quello del 2001, capiremmo che alla crescita del bisogno di consumi non ha corrisposto l'aumento di un bisogno di coscienza.

Io sono per una scelta di campo: una ipotesi di società e di valore dell’uomo sulla quale misurare, intelligentemente, cosa è oggi la sinistra italiana, cosa è il sindacato, cosa potrebbe essere la Cgil, su cosa si può ricomporre.